CIBO E CULTURA

 

Comprende consigli pratici

Ricette ed articoli.
La rubrica è seguita dalla  Sig.a  Primiceri Presidente dell’unione nazionale pizzaioli.
 Inoltre  arricchita da Eventi  di  cultura  di  Spettacoli vari.

 LA RUBRICA CULTURA  E' SEGUITA  DAL  SIG. MAURO FERRARIO. 

 

 

 

COMEDIANS – Teatro della Cooperativa, Milano – 

 

Nello storico quartiere milanese di Niguarda si trova un piccolo ma coraggioso teatro di produzione, il Teatro della Cooperativa, che è attivo ormai da quasi quindici anni e che grazie alla direzione dell’autore, regista e attore Renato Sarti, alternando produzioni proprie e ospitalità, personaggi noti e promesse provenienti dai suoi laboratori di recitazione, è diventato nel tempo un punto di riferimento culturale per il quartiere e la provincia.

 

La stagione 2015/2016 di questo teatro si apre con un piccolo evento speciale: la ripresa dello spettacolo Comedians, già presentato la scorsa stagione nel più blasonato Teatro Elfo Puccini di Milano.

 

Si tratta di un libero adattamento della pièce dell’autore britannico Trevor Griffiths. L’azione si sposta da Manchester in Italia ma rimane invariata l’idea di fondo: dei comici dilettanti che hanno frequentato un corso serale di recitazione tenuto da un ex comico professionista scoprono poche ore prima del saggio di fine corso che un importante talent scout, che sulla recitazione comica ha idee diametralmente opposte a quelle del loro insegnante, assisterà alle loro esibizioni.

 

Per gli attori dilettanti è ovviamente l’occasione della vita. Si trovano però di fronte a un bivio morale: restare fedeli ai propri ideali e agli insegnamenti ricevuti oppure seguire i consigli del talent scout, scegliendo la strada più facile per venire incontro ai gusti del grande pubblico, costi quel che costi, ed avere così la possibilità di ottenere soldi e successo?

 

Comedians era già stato portato in Italia nel 1985/86 al Teatro dell’Elfo di Milano per la regia di un giovanissimo Gabriele Salvatores, con l’adattamento curato dal duo Gino & Michele e con un cast di giovani promesse del teatro e del cinema italiano, all’epoca al debutto, tra cui ricordiamo Paolo Rossi, Claudio Bisio, Antonio Catania, Silvio Orlando, Renato Sarti (regista della versione attuale), Bebo Storti e Gigio Alberti. La stessa squadra avrebbe poi preso spunto da questa pièce per dar vita nel 1987 al secondo film di Salvatores, Kamikazen - ultima notte a Milano, un bello spaccato della Milano anni ’80 passato all’epoca quasi inosservato ma la cui visione è assolutamente consigliata.

 

La versione del Teatro della Cooperativa è però inedita e per la prima volta tutta al femminile, insegnante e talent scout compresi. Il miraggio in questo caso, come per il Comedians di Salvatores, è la televisione. Le nostre aspiranti comiche scoprono però ben presto che per essere scelte e lasciare la mediocrità delle loro vite dovranno scendere a compromessi e sacrificare la loro dignità ingoiando qualche boccone amaro. Alcune lo faranno, altre invece no.

 

Lo spettacolo è molto divertente ma non certo banale: è anzi un ottimo punto di partenza per una riflessione sulla comicità e sulla possibilità di fare un teatro con dei contenuti politici e sociali ma allo stesso tempo assolutamente godibile per il pubblico.

 

Gabriele Salvatores presentando la sua edizione dell’1985/86 ha dichiarato: “Quindi: Comedians per una riflessione sulla comicità inizialmente riferita alla storia dell'Elfo ma successivamente incentrata sul mestiere e sull'essere del comico. Si sono aggiunti poi anche dei riferimenti "esterni" che riguardano gli stereotipi di una comicità che vediamo in teatro o in televisione. […] Il comico televisivo è preso in un meccanismo crudelissimo, non gli è permessa nessuna giustificazione: o ridono o non ridono e il successo è estremamente superficiale, non può trovare nessun alibi culturale se immediatamente, alla battuta, non scatta la risata. Questa influenza ha influito sul tipo di lettura che volevo fare dello spettacolo  e, non a caso, l'impresario teatrale del testo originale si è trasformato in un manager, un talent scout, televisivo.”.

 

Le quattro attrici protagoniste Margherita Antonelli, Alessandra Faiella, Rita Pelusio e Claudia Penoni, che hanno aiutato il regista Renato Sarti ad adattare il copione di Griffiths, sono perfettamente a loro agio nei ruoli delle aspiranti comiche anche perché provengono dall’ambiente del cabaret (come già i protagonisti dell’edizione 1985/86): qualcuno di voi se le ricorderà sicuramente nelle trasmissioni televisive Zelig e Colorado Cafè, ma anche le due coprotagoniste Rossana Mola e Nicoletta Ramorino, rispettivamente la talent scout e l’insegnante, meritano una menzione. Tutto sommato, si tratta di due ore di divertimento molto intelligente che non vi faranno pentire di essere usciti di casa.

 

 

CELLO SUITES (In den Winden im Nichts) - Teatro alla Scala, Milano – 5 / 19 marzo 2015

Il secondo titolo della stagione di balletto del Teatro alla Scala è una novità assoluta nel repertorio del Corpo di Ballo: si tratta infatti di Cello Suites (In den Winden im Nichts), una coreografia di Heinz Spoerli basata per l’appunto sulle Suites per violoncello solo di Johann Sebastian Bach.

Il ballerino e coreografo svizzero ha sempre avuto una predilezione per la musica di Bach. Presentando lo spettacolo ha infatti dichiarato: “Ogni volta che ascolto Bach sento il mio cuore che sobbalza. La sua musica è per me un’inesauribile fonte di ispirazione e lo è sin dai miei vent’anni, prima ancora che, in Germania, a Düsseldorf, allestissi una coreografia sulle Variazioni Goldberg, da molti critici considerata, agli inizi degli anni Novanta, una delle creazioni coreografiche più importanti di quel periodo. Con lo stesso entusiasmo ho in seguito affrontato tutte le sei Suites per violoncello solo di Bach, ma in due fasi e realizzando due balletti:...und mied den Wind (Suites nn. 5, 4, 1) e In den Winden im Nichts (Suites nn. 2, 3, 6). Nel primo ho evocato l’idea di tre degli elementi platonici: terra, acqua, fuoco. Il secondo, che ora approda anche nel repertorio del Teatro alla Scala, ho preso in considerazione il quarto elemento: l’aria... il vento.”

In realtà il titolo In den Winden im Nichts sembra far riferimento anche ai cinque elementi del pensiero tradizionale giapponese, dove ai nostri tradizionali terra, acqua, fuoco e aria s’aggiunge il vuoto, che rappresenta le cose che non sono nella vita quotidiana

Sempre secondo Spoerli, “nelle tre Suites utilizzate per In den Winden im Nichts, lo stesso Bach ha inserito vere e proprie forme di danza come la sarabanda, il minuetto, la gavotta, che mi hanno ulteriormente motivato a creare pezzi coreografici astratti ispirati a queste danze. Nelle Suites, partendo dalla danse d’ecole accademica, mi sono sentito libero di creare una sorta di free style e mi sono ulteriormente convinto della necessità che ha sempre guidato il mio lavoro: portare avanti la ricerca nel balletto classico.”.

Spoerli ha iniziato tardi la sua carriera di ballerino: nel 1960, quando già aveva 19 anni, mentre le prime brevi coreografie risalgono al 1967 e il primo successo come coreografo, Le Chemin, al 1972. Comunque Spoerli preferisce considerarsi un "creatore di danza" piuttosto che un "coreografo ", perché sostiene che questo termini si adatti maggiormente alla varietà di forme e stili di danza da lui utilizzati. Ad ogni modo nei suoi lavori si trovano veramente stili di danza diversi, dal classico all’avanguardia senza trascurare i passaggi per così dire intermedi, sia che si tratti di lavori intimisti, sia più spettacolari e su larga scala.

Nel corso della sua carriera Spoerli ha quindi alternato senza apparente difficoltà l’allestimento di balletti classici, neoclassici e contemporanei, storie tradizionali e danza astratta. Cello Suites - In den Winden im Nichts può essere per l’appunto classificato come una balletto neoclassico e astratto.

Quindi non aspettatevi il Lago dei cigni, Cenerentola, Giselle o Lo schiaccianoci: non c’è un libretto, la scenografia è praticamente inesistente, l’accompagnamento musicale è affidato come da titolo a un violoncello solista e i costumi sono minimalisti (ad ogni Suite è assegnato un diverso colore: rosso, verde e blu).

Il balletto ha però un suo fascino e coinvolge: i diciotto movimenti delle tre Suites diventano quasi dei numeri chiusi che vedono l’alternarsi di assolo, duetti, passi a tre e coreografie d’assieme che esprimono ogni volta emozioni diverse

Il Corpo di Ballo del Teatro alla Scala come al solito non delude e sia gli amanti del balletto classico più tradizionale sia quelli della danza moderna escono da teatro soddisfatti. In conclusione, uno spettacolo da consigliare.

L’INCORONAZIONE DI POPPEA - Teatro alla Scala, Milano – 1 / 27 febbraio 2015

Il Teatro alla Scala ha scelto per la stagione 2014/2015 un’opera e un compositore non molto frequentati: L’incoronazione di Poppea di Claudio Monteverdi, affidata alla direzione di Rinaldo Alessandrini e con regia, scene e luci a cura di Robert Wilson.

Il debutto de L’incoronazione di Poppea risale al 1642 al Teatro SS. Giovanni e Paolo di Venezia, come parte della stagione del carnevale. La documentazione relativa al primo allestimento è però andata quasi completamente perduta insieme alle notizie riguardo all’accoglienza del pubblico, inoltre abbiamo traccia di una sola riedizione, a Napoli nel 1651. Sono quindi seguiti più di duecento anni di oblio: solo a fine ‘800 è stata infatti riscoperta la partitura manoscritta dell’edizione veneziana, e finalmente nel 1905 il compositore Vincent d'Indy ha presentato al Conservatoire de Paris un concerto con le parti a suo parere più belle e significative del lavoro di Monteverdi. Da quel momento l’opera è pian piano entrata nel repertorio di diversi teatri.

Però L’incoronazione di Poppea rappresenta una sorta di rompicapo per musicologi: le due partiture manoscritte sopravissute, una a Venezia e una a Napoli, mostrano differenze significative non solo tra di loro, ma anche rispetto all’edizione “ufficiale” e “letteraria” del libretto pubblicata dall’autore Giovan Francesco Busenello. In tutti questi documenti mancano inoltre sia il nome dell’autore della musica, sia il duetto “Pur ti miro, pur ti godo” che è invece presente nel libretti di due opere delle quali abbiamo perso la musica: il Pastor regio di Benedetto Ferrari (1641) e il Trionfo della Fatica di Filiberto Laurenzi (1647)

Quindi, considerando che sia Ferrari sia Laurenzi hanno lavorato per il Teatro di SS. Giovanni e Paolo proprio nella stagione del carnevale 1642/43 e che sussistono dubbi sulla paternità anche di altri frammenti dell’opera, è molto probabile che per L’incoronazione di Poppea Monteverdi, all’epoca settantacinquenne, sia stato aiutato da giovani collaboratori. 

Quello che ci resta è comunque un lavoro fuori dal comune: si tratta infatti di una delle prime opere ad usare eventi e personaggi storici per la trama, ma la cosa più inconsueta è il trionfo del male. Alla fine a vincere è la relazione adultera di Poppea e Nerone a scapito della moglie Ottavia, ripudiata, ma tutta l’opera è un susseguirsi di trame nell’ombra, ricatti, tentativi di assassinio e alla fine trovare un personaggio veramente positivo è arduo: forse il solo Seneca si salva

Il libretto trae spunto dagli Annali di Tacito, ma Busenello si prende diverse licenze rispetto alla realtà storica: sette anni si condensano in un giorno, Nerone appare meno crudele del dovuto, Ottavia è descritta come dedita a complotti e pronta all’assassinio, Seneca sembra più virtuoso di quanto non fosse in realtà, Poppea risulta più innamorata che assetata di potere ed infine il grande poeta Lucano dalle marcate simpatie repubblicane ci appare mentre festeggia ubriaco con Nerone la morte di Seneca.

Ma il pubblico borghese veneziano del 1642, colla sua conoscenza della storia di Roma, sicuramente sapeva che questo trionfo del male sarebbe risultato nella realtà effimero: Nerone uccise infatti Poppea a calci durante la sua seconda gravidanza. Bisogna anche considerare che nel ‘600 la Roma del Papa Re era ancora percepita da Venezia come una minaccia alla sicurezza dello stato, quindi la storia di Poppea deve secondo alcuni storici essere interpretata in un contesto contemporaneo, come una dimostrazione della superiorità della borghesia veneziana sulla società decadente della Roma antica e moderna. Perciò l’opera sarebbe solo in apparenza immorale: il pubblico dell’epoca avrebbe sicuramente visto i personaggi come esempi da non seguire, specchiandosi in loro solo per ritenersi migliore.

Dal punto di vista musicale L’incoronazione di Poppea rappresenta certamente un momento importante nella storia dell’opera: scritta quando il genere era ancora giovane e in fase di evoluzione, costituisce uno dei primi tentativi riusciti di mettere la musica a servizio dell’azione drammatica, e le emozioni dei personaggi si riflettono nella musica e nel canto. Monteverdi usa tutti gli strumenti a disposizione ad un compositore dell’epoca per realizzare non solo numeri chiusi ma anche un tessuto musicale di fondo. L’opera è quindi molto interessante anche se per i non appassionati di musica barocca l’ascolto potrebbe risultare un po’complicato. 

Ristorante  Mediterraneo. (Torino città)

Questa  volta  siamo  a  Torino  nei pressi  della  Fiera  Lingotto, dove  si  è  appena  conclusa la  Fiera  Automotoretro’ , e  andiamo  a  mangiare dalle  simpatica  Sig,a Lina, in  Corso  Bramante 81, al  ristorante  Mediterraneo.

L’ambiente  è  elegante  e  spazioso, e  i  piatti, sono  una vera sciccheria.Si  mangia  di tutto,dalla  carne  al  pesce,alla  cacciagione .Tipici  alcuni piatti  alla  siciliana, come  la  signora Lina, ma  ottimi  anche  i piatti  piemontesi. Il  tutto  naturalmente  con  vino  tipico,tra  cui un  Barbera  fermo . I  piatti  si  passa  dagli  agnolotti  al  sugo,  alla  pasta  ai  frutti  di mare- Inoltre  esistono  le  degustazioni, che  sono  a  base  di pesce  o  a base  di  carne, e  prevedono la bellezza  di  5 portate.Dolce  e  frutta,  amaro ,  grappa  sono  per  finire prima  del  conto- Che  altro  dirvi, vi lasciamo  alle  foto del locale  e di  alcuni piatti,  che  sono  abbondanti e  deliziosi.Insomma  difficile  un  connubio  di  carne, pesce, cacciagione  tutto  perfetto, e  come  sempre  anche e soprattutto  il prezzo. Se  siete  in  tanti  meglio prenotare allo 011-6631980.

Buon  appetito.

LA FAMIGIA ADDAMS  - Teatro della Luna, Milano – 17 ottobre / 8 dicembre 2014

 

Il musical The Addams Family, che dopo un’anteprima a Chicago ha debuttato a Broadway nel marzo 2010, ha ora una sua versione italiana e bisogna dire che i produttori hanno scelto per la prima una data ed un luogo più che appropriati al soggetto: venerdì 17 ottobre al Teatro della Luna. 

Forse non tutti sanno che la Famiglia Addams è nata come una serie di vignette autoconclusive di humour nero, pubblicate sul settimanale The New Yorker da partire dal 1938 fino al 1988 (anno della morte dell’ideatore Charles Addams), per poi approdare a quasi tutti i media a disposizione: alla storica serie TV in bianco e nero andata in onda tra il 1964 ed il 1966 che ha fatto conoscere gli Addams in tutto il mondo si sono pian piano aggiunti libri, serie animate, film, spot pubblicitari, videogiochi e per l’appunto un musical a Broadway. 

In realtà nelle vignette i personaggi erano poco caratterizzati e addirittura anonimi: infatti i membri della famiglia sono stati battezzati solo in occasione del debutto in TV, quando le proposte di Charles Addams sono state quasi completamente accettate dai produttori della serie.  

Gli Addams hanno un forte interesse per il macabro, e la comicità della serie TV si regge principalmente sullo scontro culturale tra questa famiglia allargata e il resto del mondo. Gli Addams accolgono tutti amichevolmente, anche chi ha cattive intenzioni nei loro confronti, e rimangono genuinamente stupiti di fronte alle reazioni della gente cosiddetta “normale” alle loro bizzarre abitudini. Si ha anzi l’impressione che gli Addams si ritengano dei cittadini medi perfettamente integrati nella società e che guardino alla nostra “normalità” come a una stranezza. 

Spesso chi entra in contatto con loro ha la vita sconvolta: cambia lavoro, si trasferisce in un altro stato, viene rinchiuso in manicomio o comunque subisce qualche altro grave cambiamento in negativo. Gli Addams riescono sempre in qualche modo a venire a conoscenza di questi eventi e li interpretano con gran candore nel modo sbagliato, pensando di aver aiutato il malcapitato a migliorare la sua vita. 

Non è difficile vedere anche una certa satira sociale, perché il sistema di valori rovesciato degli Addams a suo modo funziona benissimo: non c’è finzione o ipocrisia, la famiglia è molto unita e Gomez e Morticia sono una coppia affiatata, sempre innamorata come il primo giorno e molto affettuosa coi figli. Non si può certo dire lo stesso di molte famiglie tradizionali. 

E’ stato probabilmente il produttore Nat Perrin, sceneggiatore della serie e già strettissimo collaboratore dei Fratelli Marx in diversi film (c’è chi ha visto, a mio parere giustamente, delle similarità tra l’humour di Groucho Marx e quello di Gomez Addams, entrambi grandi amanti del sigaro) a introdurre questi elementi di satira sociale. Gli Addams si trovano di volta in volta a confrontarsi con la politica, il sistema legislativo, il mondo dell’arte e perfino con quello della musica commerciale, quando il maggiordomo Lurch, chiaramente ispirato a Frankenstein, diventa un’improbabile  idolo per ragazzine, ogni volta con ottimi risultati dal punto di vista della comicità.  

Se la serie TV degli anni ’60 è stata la base per le serie animate ed i film, per la produzione del musical il trio di autori Marshall Brickman, Rick Elice (responsabili del libretto) e Andrew Lippa (a cui si devono le musiche e i testi delle canzoni) ha scelto invece di prendere spunto principalmente dalle vignette di Charles Addams, e in particolare dal personaggio di Zio Fester. Gli autori si sono infatti chiesti: “Se Fester volesse mettere in scena uno spettacolo a Broadway, che tipo di spettacolo farebbe?”. 

Il risultato è un musical che ruota intorno alla storia d’amore tra Mercoledì Addams e Lucas Beineke, un ragazzo “normale” con una famiglia “normale”. Mercoledì sente ora di avere nuovi interessi, non più legati al macabro come quelli dei suoi familiari, e cerca l’approvazione delle due coppie di genitori organizzando una cena a casa Addams, chiedendo ai suoi parenti di comportarsi in modo “normale”.
L’incontro tra i clan Addams e Beineke fa però emergere sia le differenze tra le due famiglie, sia i loro problemi interni. Alla fine però tutto si risolve per il meglio anche grazie a Zio Fester e ai fantasmi degli antenati Addams da lui evocati. 

Il musical ha preso la sua forma definitiva tra le anteprime di Chicago e il debutto ufficiale a Broadway, con alcuni numeri musicali sostituiti ed altri riscritti. Il successo è stato incredibile, con il teatro sempre tutto esaurito e la terza posizione assoluta negli incassi, dietro solamente a Wicked e al Re Leone. Questo nonostante le critiche siano state tutt’altro che entusiastiche: la media calcolata tra le 27 principali recensioni è D+ in una scala tra A ed F. Tanto per capirci, nella scuola americana con D si evita la bocciatura per un pelo. 

In effetti la storia è deboluccia, un po’melensa e abbastanza prevedibile. Qualche numero divertente non manca (citerei tra tutti Zio Fester innamorato della Luna oppure Gomez combattuto tra l’amore per la moglie e quello per la figlia) ma ci si sarebbe aspettato molto di più. Inoltre gli Addams sembrano “normalizzati”, quasi fossero una famiglia modello da vecchio film Disney. Se cercate gli Addams dei vecchi telefilm, colla loro divertentissima inversione di prospettiva e quel pizzico di satira sociale, rimarrete come me abbastanza delusi da questo musical.

 

THE ORIGINAL BLUES BROTHERS BAND–

 

Il Blue Note di Milano ha riaperto dopo le ferie estive col botto: direttamente dagli Stati Uniti è arrivata la Original Blues Brothers Band. Probabilmente molti pensano che i Blues Brothers siano un fenomeno solo cinematografico, legato al grande successo mondiale di critica e pubblico del film del 1980 (mentre lo stanco sequel del 1998 ha giustamente fatto fiasco ai botteghini), e che non sia mai esistita una vera band fuori dal grande schermo. 

Niente di più falso: quando è stato deciso di girare il primo film la Blues Brothers Band aveva già all’attivo diversi concerti e un album campione di vendite, Briefcase full of blues: oltre due milioni di copie vendute e la vetta della classifica Billboard, niente male per un debutto. 

La band è infatti nata nel 1976 (con il nome di Howard Shore and his All-Bee Band) come sketch musicale interno a Saturday Night Live, la trasmissione televisiva della NBC che è stata fucina di almeno un paio di generazioni di grandi talenti comici poi passati ad Hollywood. Il merito della nascita del gruppo deve essere ascritto a Dan Aykroyd, buon musicista e grande amante della musica R&B, blues e soul, che è riuscito a coinvolgere il collega John Belushi in un’avventura musicale certo non preventivata. 

Nel 1978 si registrano infatti la seconda e terza (ed ultima) apparizione a Saturday Night Live, questa volta con il nome definitivo, e il gruppo comincia una sua vita autonoma indipendente dalla TV, con alcuni concerti e il già citato album Briefcase full of blues, nelle cui note di copertina troviamo già la storia che darà poi la trama al film: la vicenda di Jake ed Elwood Blues, fratelli di sangue cresciuti in un orfanotrofio gestito da suore cattoliche a Rock Island, Illinois, dove hanno imparato ad amare e suonare il blues da un bidello di nome Curtis. 

Sebbene i due frontmen del gruppo fossero solo attori che cantavano per diletto, il resto della band era formato da musicisti di primissimo livello: dalla trasmissione Saturday Night Live provenivano i fiati "Blue" Lou Marini e Tom Malone e l’ottimo tastierista ed arrangiatore Paul Shaffer (che potete ancora ammirare ogni giorno su Rai5 nel David Letterman Show), che ha avuto anche il grande merito di suggerire l’ingaggio delle due magiche chitarre della Stax Records di Memphis, ex membri  del gruppo Booker T and the M.G.'s, il chitarrista Steve “the Colonel” Cropper e il bassista Donald "Duck" Dunn. John Belushi ha invece selezionato altri due grandi nomi del blues, il trombettista Alan Rubin e il chitarrista Matt Murphy. 

La morte per overdose di John Belushi nel marzo 1982 ha però impedito che l’avventura della band proseguisse. Dan Aykroyd si è diviso tra l’amore per la musica (è fondatore e comproprietario della catena di locali americani House of Blues) e la carriera cinematografica, Jim Belushi ha talvolta sostituito il fratello col nome di Zee Blues, John Goodman ha fatto delle apparizioni nel ruolo di "Mighty Mack" McTeer, ma la magia dei primi anni ’80 non può più tornare. 

Quindi, direte voi, perché andare a vedere e sentire questa Original Blues Brothers Band? In fondo della formazione originale rimangono solo Steve Cropper e Lou Marini, e il resto del gruppo è fatto da elementi nuovi che nulla hanno a che spartire con la nascita della band a Saturday Night Live o con il film di John Landis. Questo è vero, però dobbiamo anche dire che i rincalzi sono cantanti e musicisti coi fiocchi, che sanno di avere una tradizione e un nome da rispettare e onorare e lo fanno benissimo, e che l’energia che sprigionano dal palco è grande e vale sicuramente il prezzo del biglietto.  

Il pubblico milanese ha gremito la sala del Blue Note perché ha capito di essere di fronte a un piccolo pezzo di storia della musica, e gli artisti sul palco hanno ricambiato coinvolgendo gli spettatori come rare volte capita. Tutto sommato non tutti giorni si può salire sul palco a cantare e ballare con una leggenda della musica USA come Steve Cropper. Ricordiamoci inoltre che se soul e R&B, ovvero la musica nera anni ’50 e ’60, è ancora così popolare il merito è un po’anche dei bianchi Blues Brothers. Come al solito l’unica nota negativa è la scelta del Blue Note dei due spettacoli a sera (uno alle 21 ed uno alle 23): questo limita la durata dei concerti e di conseguenza rimane un po’di amaro in bocca, perché quando lo spettacolo è bello e coinvolgente spiace tornare a casa dopo meno di un’ora e mezza.

Certo i posti non sono molti per concerti di artisti di grande fama, quindi i due turni danno la possibilità a più spettatori di assistere a spettacoli di altissimo livello con musicisti di gran nome, però con tutto il rispetto per le esigenze degli organizzatori 50 Euro per quello che alla fine è un mezzo concerto mi sembrano un po’troppi. Speriamo che i responsabili del Blue Note cambino politica in futuro.Per chi invece volesse conoscere meglio i Blues Brothers e avesse una decina di Euro da investire segnalo che è disponibile un cofanetto di 3 CD con i primi storici album: Briefcase Full of Blues (1978), The Blues Brothers: Music from the Soundtrack (1980) e Made in America (1980). Soldi sicuramente ben spesi.

 

 DON CHISCIOTTE - Teatro alla Scala, Milano – 17 / 27 settembre 2014

 Il Teatro alla Scala riapre dopo le vacanze estive con il balletto Don Chisciotte, con la coreografia di Marius Petipa nella versione rivista nel 1966 per il balletto dell'Opera di Stato di Vienna da Rudolf Nureyev, che aveva chiesto in quell’occasione a John Lanchbery di orchestrare e adattare la musica di Ludwig Minkus. 

Il balletto prende spunto dall’omonimo romanzo di Miguel de Cervantes, e racconta dei vani tentativi di un uomo molto ricco, Gamache (Comacho nel romanzo), di convolare a nozze colla bella Kitri (Quitera) che è invece innamorata di un giovanotto del villaggio, Basil (Basilio).

 Molti musicisti e coreografi si sono cimentati con questa storia, a partire da Franz Hilverding a Vienna nel 1740 e passando per Charles Didelot, il "padre del balletto russo", che ha realizzato una versione in due atti per i Balletti Imperiali a San Pietroburgo nel 1808, ma l’adattamento più famoso e riuscito è per l’appunto quello su musiche di Minkus montato per la prima volta da Marius Petipa nel 1869 per il Teatro Bol'šoj a Mosca. Petipa ha poi rivisto due anni più tardi questa produzione per i Balletti Imperiali di San Pietroburgo, di cui era Maître de Ballet, dandole una forma più opulenta e grandiosa.

 Il balletto ha riscosso immediatamente grande successo ed è entrato stabilmente nel repertorio dei teatri russi, prima nella versione originale e poi con l’allestimento rivisto da Alexander Gorsky per il Teatro Bol'šoj nei primi anni del ventesimo secolo. Le modifiche di Gorsky, decise per dare maggior risalto al cast di stelle di prima grandezza a sua disposizione, sopravvivono ancora nelle produzioni moderne.

 Nemmeno la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 ha fatto scemare la popolarità di questo balletto, che a differenza di altri è stato sempre rappresentato in Russia con regolarità. Diverso invece il discorso al di fuori dell’ex Unione Sovietica: a parte una versione ridotta di Anna Pavlova nel 1924, per vedere un allestimento integrale gli spettatori dell’occidente hanno dovuto aspettare quello del Ballet Rambert nel 1962.

Come abbiamo già detto, nel 1966 è stato invece Rudolf Nureyev a presentare una sua versione per il balletto dell'Opera di Stato di Vienna. Il debutto alla Scala con lo stesso Nureyev è invece datato 1980 e da allora il corpo di ballo ha spesso rappresentato il Don Chisciotte, sia a Milano sia in tournée. 

Si tratta di un balletto allegro e spumeggiante, che prendendo a pretesto i personaggi di Cervantes riesce a cambiare agilmente genere: al classico triangolo amoroso Kitri, Basil e Gamache, con tanto di gran pas-de-deux finale riservato a ballerini di grande classe e tecnica, si alternano infatti momenti ispirati al folklore spagnolo e dei gitani, dove i costumi trasformano il corpo di ballo in una vera festa per gli occhi, o numeri quasi da opera buffa affidati a Don Chisciotte e al fido scudiero Sancho Panza. 

In questa occasione il Teatro alla Scala ha ripreso l’ultimo allestimento, datato 2010, affidandolo sia ai membri del corpo di ballo, sia ad artisti ospiti di primissimo livello, come le coppie Tamara Rojo / Ivan Vasiliev e Natalia Osipova / Leonid Sarafanov. 

Purtroppo una polmonite ha impedito a Ivan Vasiliev di mostrarci il suo talento, ma il nostro giovane Claudio Coviello (classe 1991 ma talento da vendere) lo ha sostituito egregiamente facendo da ottima spalla ad una grande Tamara Rojo: la coppia alla sera della prima si è meritata un lungo e caloroso applauso dal pubblico milanese, che ha mostrato di apprezzare molto i due protagonisti, senza però dimenticare anche il corpo di ballo che ha svolto il suo compito con la solita professionalità. Decisamente uno spettacolo di qualità, speriamo di non dover aspettare altri quattro anni per rivederlo. 

 

MONTY PYTHON LIVE (Mostly) - O2 Arena, Londra – 1 / 20 luglio 2014. 

Vorrei spendere due parole sullo spettacolo che ha chiuso la carriera dei Monty Python, uno dei gruppi comici più famosi e innovativi nel mondo anglosassone, formatosi in occasione della serie televisiva per la BBC Monty Python's Flying Circus, andata in onda tra il 1969 ed il 1974 per un totale di quattro serie e 45 episodi (più due episodi speciali per la televisione tedesca WDR). 

La serie, con i comici nella doppia veste di attori e autori degli sketch, è terminata spontaneamente per stanchezza e mancanza di idee, ma il successo è stato così grande da spingere i sei protagonisti a riunirsi per film e spettacoli dal vivo negli anni ‘70 e ‘80. Per chi volesse farsi un’idea della loro produzione, posso citare oltre alla serie TV questi cinque film: 

· Ed ora qualcosa di completamente diverso (1971) – in realtà solo un collage dei migliori sketch e canzoni delle prime due stagioni della serie TV; 

· I Monty Python e il Sacro Graal (1975) – il primo vero lungometraggio con una trama, da cui è stato liberamente tratto il musical Spamalot che tiene banco a Londra e New York dal 2005; 

· Brian di Nazareth (1979) – che purtroppo ha avuto grossi problemi in Italia per la sua ironia sulle religioni, infatti è stato distribuito solo nel 1991; 

· Monty Python Live at the Hollywood Bowl (1982) – la registrazione di uno dei tanti spettacoli dal vivo tenuti negli Stati Uniti in seguito al successo riscosso dalla serie TV e dai film; 

· Monty Python – Il senso della vita (1983) – con cui il gruppo ha conquistato il Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes e si è fatto conoscere anche dal pubblico italiano. 

Non c’è mai stato un vero e proprio scioglimento ufficiale del gruppo, ma nel 1989 la prematura scomparsa di Graham Chapman ha sembrato segnare la fine definitiva del sodalizio 

Quindi gli altri cinque componenti si sono dedicati a carriere soliste, pur collaborando a volte tra loro. In particolare Terry Gilliam è diventato un regista cinematografico di successo (ricorderei tra gli altri Brazil, La leggenda del re pescatore, L'esercito delle 12 scimmie, I fratelli Grimm e l'incantevole strega, Parnassus), John Cleese ha continuato la sua attività di attore e autore tra cinema e TV (citerei soprattutto la serie televisiva Fawlty Towers e il film Un pesce di nome Wanda) come anche Eric Idle (il cui maggior merito però è la creazione del già citato musical Spamalot), Terry Jones si è invece diviso tra regie cinematografiche (da menzionare almeno il bello ma poco noto Personal Services) e apprezzati studi sul medioevo e sull’età classica, mentre Michael Palin oltre all’attività di attore ed autore è diventato il protagonista con il suo humour di numerose popolari serie di documentari di viaggio, ognuna seguita da un libro di approfondimento (Rai5 ci ha presentato negli anni scorsi Himalaya with Michael Palin e Michael Palin's New Europe, se dovessero replicarle non perdetevele). 

Spesso sono circolate voci riguardo a una possibile riunione dei membri sopravvissuti del gruppo ma, a parte un paio di progetti poi abortiti per disaccordi interni (un seguito del Sacro Graal nel 1998 e una tournée negli Stati Uniti nel 1999), sono state sempre categoricamente smentite. In perfetto stile Python, a una domanda a questo proposito Eric Idle aveva risposto “I Monty Python si riuniranno non appena Graham Chapman sarà tornato dall’aldilà. Stiamo discutendo col suo agente riguardo alle condizioni”. 

Ma finalmente, dopo mesi di “colloqui segreti”, a novembre 2013 è stata annunciata la riunione tanto attesa dai fan: uno spettacolo dal vivo con il meglio della vecchia produzione, rivisto e aggiornato per l’occasione. All’inizio era stata prevista una sola data (il 1 luglio 2014) ma, considerando che tutti i 20.000 biglietti disponibili sono andati esauriti soli in 43,5 secondi, sono state aggiunte nove repliche ed è stato anche deciso che l’ultimo spettacolo (quello d’addio del gruppo) sarebbe stato trasmesso in diretta TV nel Regno Unito e via satellite in tutto il mondo in una rete di sale cinematografiche selezionate. 

Quindi domenica 20 Luglio è stato possibile vedere Monty Python Live (Mostly) anche in Italia, mentre per la fine dell’anno è prevista un’uscita in DVD. Lo slogan per lo show è, autoironicamente, One down, five to go (Fuori uno, ne rimangono cinque): infatti lo spettacolo inizia con una animazione curata da Terry Gilliam dove si vede il piede dipinto da Bronzino simbolo dei Monty Python liberarsi con un gran calcione del povero Graham Chapman, per lasciare la scena agli altri membri del gruppo. 

Lo spettacolo si è quindi snodato alternando sketch e canzoni dal vivo con filmati sia di repertorio, sia realizzati appositamente per l’occasione, intrattenendo il pubblico per circa due ore e mezza. Le reazioni della critica sono state contrastanti: molti hanno valutato negativamente la riproposizione degli sketch classici, perché ormai datati oppure perché hanno pensato che i Monty Python abbiano voluto solamente sfruttare pigramente vecchi successi senza lavorare a qualcosa di veramente nuovo. 

Secondo me il punto però è un altro: il pubblico in sala non aspettava altro che poter celebrare i suoi beniamini assistendo proprio ai vecchi sketch a cui è così affezionato. D’altra parte, quando si va ad un concerto rock il momento più atteso è sempre la riproposizione dei vecchi cavalli di battaglia. A questo proposito lo spot televisivo promozionale dello spettacolo è esplicativo: Mick Jagger, comodamente sdraiato sul divano di casa, si lamenta con un suo collaboratore del fatto che l’unica cosa da vedere in TV siano cinque settantenni che non fanno altro che riproporre stancamente vecchi successi. Ma immediatamente dopo, al momento di preparare la scaletta del prossimo concerto degli Stones, non fa altro che mettere in elenco vecchie hit. Assolutamente esilarante. 

Quindi tra i protagonisti dello spettacolo annovererei sicuramente anche i fan in sala, tra cui possiamo citare un insospettabile Stephen Hawking, che si è prestato al gioco dei Monty Python con una divertente apparizione in filmato insieme all’illustre fisico e divulgatore scientifico per la BBC Brian Cox. 

Ad ogni modo, per essere uno spettacolo con protagonisti per l’appunto cinque settantenni (più di 360 anni in tutto, secondo il cartellone) e con solo due settimane di prove, sembra incredibilmente ben congegnato e ben oliato, e anche la papera di Michael Palin e John Cleese nello sketch del pappagallo morto non ha fatto che aumentare il divertimento del pubblico. Se siete dei fan, non perdetevi il DVD. Forse non aggiungerà granché di nuovo alla carriera dei Monty Python, ma lo scambio di energia reciproco tra attori e pubblico è stato evidente, e tutti si sono divertiti, sia i protagonisti sul palco, sia gli spettatori in sala.

 

LE COMTE ORY - Teatro alla Scala, Milano – 4 / 21 luglio 2014

 Alla Scala è il turno del melodramma giocoso in due atti di Gioachino Rossini Le Comte Ory, una nuova produzione in collaborazione con l’Opéra National de Lyon, diretta da Donato Renzetti e con la regia di Laurent Pelly, autore anche di scene e costumi. 

Le Comte Ory è la penultima opera di Rossini, la cui prima rappresentazione ha avuto luogo nell’agosto 1828 all'Opéra di Parigi. Il pubblico parigino era da tempo in attesa che Rossini si decidesse a scrivere qualcosa di originale in lingua francese: fino a quel momento infatti come direttore del Théâtre Italien si era limitato ad offrire riprese delle sue opere italiane o riadattamenti in francese delle stesse. Il solo lavoro originale (ma in lingua italiana) era stato Il viaggio a Reims, scritto appositamente in occasione dei festeggiamenti per l’incoronazione di Carlo X di Borbone quindi non più utilizzabile al di là di questa particolare occasione, anche perché prevede ben diciotto personaggi, di cui circa una decina da affidare a cantanti di primo piano, cosa certo non facile da organizzare in condizioni normali. 

L’occasione giusta però era in arrivo, grazie ad una ballata medievale incentrata sulle gesta erotiche del conte Ory, un cinico libertino dedito ai piaceri della caccia, della tavola e soprattutto della camera da letto. Il conte e i suoi cavalieri si introducono travestiti da suore nel monastero di Formoutiers, dove seducono le monache e la loro giovane e avvenente badessa, e ognuna di loro si trova dopo nove mesi a dover accudire un “piccolo cavaliere”. 

Eugène Scribe aveva già ricavato da questo soggetto un vaudeville in un atto di buon successo (cioè una commedia leggera in cui alla prosa si alternano strofe cantate su arie conosciute, nel caso specifico canti popolari francesi e arie di Mozart), e ha quindi proposto a Rossini di ampliarlo per ricavarne un opera. 

In realtà per problemi di censura sia il vaudeville che il libretto dell’opera sono meno licenziosi della ballata originale: la badessa e le monache diventano una castellana e le sue dame e il conte Ory è costretto a rinunciare all'impresa e a lasciare frettolosamente il castello per il ritorno improvviso e inatteso dalle Crociate del feudatario e dei suoi uomini. 

La stesura del libretto è stata però laboriosa: infatti il vaudeville di un atto non forniva da solo materiale a sufficienza per un’opera di due, ed inoltre Rossini aveva deciso di utilizzare per questo nuovo lavoro pezzi della partitura de Il viaggio a Reims, quindi il nuovo materiale doveva adattarsi a musica non solo preesistente ma anche scritta sulla metrica della lingua italiana, diversa da quella francese. 

Questi problemi hanno causato attriti tra Rossini (che per meglio penetrare i segreti della lingua francese si era avvalso dell'aiuto del grande tenore Adolphe Nourrit) e Scribe: quest’ultimo infine ha proibito a Rossini di apporre al libretto il suo nome, salvo poi far precipitosamente retromarcia dopo il trionfo dell'opera. 

In realtà il risultato è un libretto di ottimo livello, pieno di ironia, situazioni ambigue e colpi di scena, esattamente ciò di cui il Maestro di Pesaro aveva bisogno per scatenare il suo talento. La partitura, grazie anche all’utilizzo di pezzi de Il viaggio a Reims, è stata scritta in sole due settimane ma non per questo è meno raffinata o meno curata, in particolare l’orchestrazione è un piccolo capolavoro. 

Come dicevamo, Le Comte Ory ha riscosso immediatamente un gran successo ed a Parigi è rimasto in repertorio per vent'anni consecutivi, iniziando il declino solo quando l’affermarsi della nuova scuola di canto romantica ha cominciato a rendere complicato trovare un tenore adatto al ruolo del protagonista. 

Le Comte Ory ha avuto invece meno fortuna all’estero: ad esempio il pubblico italiano dell'Ottocento non ha apprezzato la leggerezza e la grazia tipici dello stile francese, ma soprattutto l'ambiguità e l'amoralità di quest’opera. Ancora oggi non possiamo annoverarla tra i lavori più famosi di Rossini, nonostante sia stata giustamente e completamente rivalutata dalla critica e sia quindi entrata di diritto nei repertori teatrali. 

Le Comte Ory non si inserisce infatti nel solco della tradizione italiana dell'opera buffa, né dal punto di vista del carattere dei personaggi (che erano abbastanza codificati, un po’secondo lo schema della commedia dell’arte), né dal punto di vista della trama (solitamente incentrata su due innamorati con difficoltà a sposarsi), dove il lieto fine spesso rimetteva le cose a posto anche dal punto di vista delle classi sociali. 

Il personaggio del conte Ory si muove invece in un mondo dove tutto è finzione, equivoco e travestimento, con slanci amorosi da una parte e desideri repressi dall’altra. Il musicologo Philip Gossett, grande studioso di Rossini, ha detto che il vero significato della musica “è altrettanto difficile da cogliere quanto lo sono i suoi personaggi. In quale altra opera la confusione di identità e il conseguente vortice erotico arrivano al punto di presentare un tenore mascherato da donna che pensa di fare all'amore con un soprano, mentre lo sta facendo con un contralto che interpreta il ruolo di un uomo che prende il posto del soprano? In quale altra una parte così cospicua della musica deriva, praticamente senza alterazioni, da quella di un'opera la cui sostanza è totalmente diversa, pur sembrando adattarsi perfettamente ad entrambi i drammi? Si potrebbero riferire a Rossini le parole che Ory usa per il paggio Isolier, appena prima della fine dell'opera: C'est lui qui nous a joués tous (È lui che ci ha giocati tutti), senza timore di sbagliare”. 

Cosa dire invece di questa edizione milanese? Non vorrei ripetermi, ma ancora una volta dal punto di vista della regia e delle scene siamo di fronte ad una modernizzazione a mio parere di dubbio gusto. Laurent Pelly presentando lo spettacolo ha detto di aver effettuato una trasposizione onirica. In realtà il primo atto, ambientato nella palestra di un oratorio e con il conte Ory vestito non da eremita ma da santone indiano, che approfitta della credulità delle donne convenute per cercar di far sesso, più che onirico mi sembra squallido. Decisamente molto più riuscito il secondo atto, ambientato in una casa borghese e con una scenografia fuori dai soliti schemi dove le varie stanze della casa scorrono sul palco con piacevole effetto cinematografico. Ma anche qui il regista non si è voluto far mancare sia una scena di gusto e realismo opinabili, con Ory travestito da suora che segue la contessa di Formoutier fin dentro la sua stanza da bagno, sia una scena di sesso a tre fra il conte, la contessa e il paggio Isolier sicuramente fuori copione. 

I cantanti si sono probabilmente divertiti molto, ma non penso che una regia di questo tipo abbia reso un buon servizio all’opera di Rossini. Decisamente molto meglio la parte musicale: forse non la migliore direzione possibile, ma con cantanti decisamente sopra la media delle mie ultime serate alla Scala. Speriamo quindi di trovare presto registi con meno fantasia e più voglia di attenersi all’originale.

 

COSI’ FAN TUTTE - Teatro alla Scala, Milano – 19 giugno / 18 luglio 2014. 

Torna alla Scala in una nuova produzione e diretta da Daniel Barenboim Così fan tutte, ossia La scuola degli amanti, l’ultima opera in lingua italiana di Wolfgang Amadeus Mozart. La regia è di Claus Guth, che ha preso come base l’allestimento già da lui presentato al Festival di Salisburgo. 

Si tratta della terza e ultima opera scritta da Mozart su libretto di Lorenzo da Ponte e secondo la tradizione è stata commissionata dall’imperatore Giuseppe II d'Asburgo-Lorena in seguito ai successi viennesi (1788-1789) delle prime due, ovvero de Le nozze di Figaro e del Don Giovanni. Mozart stesso ha diretto la prima rappresentazione di questa opera buffa al Burgtheater di Vienna il 26 gennaio 1790. 

In Così fan tutte Mozart e Da Ponte si divertono con lo scambio di coppia e l’infedeltà femminile. Al centro della vicenda troviamo due amici, Ferrando e Guglielmo, innamorati di due sorelle, rispettivamente Dorabella e Fiordiligi. Ma l’esperto Don Alfonso induce Ferrando e Guglielmo a dubitare della fedeltà delle amate e propone una scommessa: a condizione che essi facciano tutto ciò che egli chiederà, dimostrerà che le due donne sono assai meno fedeli di quanto essi credano. 

Don Alfonso, nonostante le sconfitte iniziali che rassicurano i giovanotti, utilizzando inganni e travestimenti e corrompendo l’intraprendente e furba Despina, cameriera di Dorabella e Fiordiligi, riuscirà a far cadere le due donne nella sua trappola: travestito da ufficiale albanese Guglielmo conquisterà Dorabella e Ferrando farà lo stesso con Fiordiligi. È quindi dimostrato che, per dirla con le parole dello stesso Don Alfonso, “È la fede delle femmine come l'Araba fenice: che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa!”. 

Il soggetto dell’opera è decisamente inconsueto per l’epoca, e in letteratura l’unico precedente rinvenuto sullo scambio di coppia è l'Orlando Furioso di Ludovico Ariosto: nel canto XXVIII si racconta infatti di due amici che, venuti a conoscenza dell'infedeltà delle loro donne, partono alla ricerca di nuove esperienze amorose. Il viaggio però mette a nudo l'amara verità: anche le altre donne non sono più caste. Cioè: Così fan tutte! In questo canto troviamo inoltre i nomi di Fiordiligi, Doralice, Fiordispina, Guglielmo e Don Alfonso. Quindi il libretto di Da Ponte sembra prendere spunto dall’Ariosto nei nomi dei personaggi ma soprattutto nella morale della storia. 

Alcuni hanno visto della misoginia in questo lavoro, però Don Alfonso non condanna Dorabella e Fiordiligi per l’infedeltà, perché è nella loro natura: “Tutti accusan le donne, ed io le scuso, se mille volte al dì cangiano amore, altri un vizio lo chiama, ed altri un uso, ed a me par necessità del core.”. Inoltre le due donne, a differenza dei loro fidanzati, sono vittime inconsapevoli e in buonafede dell’esperimento scientifico (diciamo così) di Don Alfonso. 

L’opera ha suscitato all’inizio reazioni contrastanti, tra condanne senza appello che parlavano di frivolezza, inverosimiglianza e immoralità da un lato e consenso entusiastico per la sua ironia e raffinatezza di sfumature dall’altro. I più numerosi pareri negativi hanno però pian piano preso il sopravvento su quelli positivi e si è quindi diffusa l’opinione, grazie anche a Beethoven e Wagner, che Così fan tutte sia uno dei lavori teatrali più deboli di Mozart, se non altro nel libretto e nella drammaturgia.

Inoltre il soggetto licenzioso, che pur sembrava non aver offeso la sensibilità del pubblico viennese al debutto, ha fatto sì che l’opera sia stata poco rappresentata per tutto il diciannovesimo e anche all’inizio del ventesimo secolo. Anzi, spesso il pubblico ha dovuto assistere ad edizioni censurate: solamente dopo la Seconda Guerra Mondiale il Così fan tutte è stato giustamente rivalutato e ha ritrovato il posto di sua competenza nel repertorio operistico mondiale. 

Infatti siamo di fronte ad un opera di tipico gusto settecentesco, apparentemente leggera come una piuma ma anche capace di darci personaggi a tutto tondo, sempre in perfetto e un po’ambiguo equilibrio tra realtà e finzione, ragione e sentimenti, e dove gli autori guardano alle loro creature con ironia e distacco ma si fanno coinvolgere dalla vicenda quando serve. 

Così fan tutte è settecentesco anche nella cura della struttura, con due atti di pari lunghezza e di svolgimento quasi speculare: ad esempio possiamo citare i due terzetti di apertura (il primo coi personaggi maschili e il secondo con quelli femminili), oppure le svolte alla trama entrambe dovute a travestimenti di Despina, o il fatto che ad ogni personaggio tocchino due arie (escluso Ferrando, cui ne spettano tre). Di certo il ritmo è incalzante e sostenuto da numerosi pezzi d’insieme: in tutto abbiamo un coro, due finali, sei duetti, cinque terzetti, un quartetto, due quintetti e un sestetto. 

Si può anche notare come lo scambio di coppie crei un interessante gioco di simmetrie a livello vocale: partendo da una situazione inusuale con abbinamenti soprano-baritono (Fiordiligi e Guglielmo) e mezzosoprano-tenore (Dorabella e Ferrando) le macchinazioni di Don Alfonso mettono le cose a posto ricomponendo le coppie classiche soprano-tenore e mezzosoprano-baritono per i duetti del secondo atto. 

Inoltre anche i caratteri dei sei personaggi sono complementari: il razionalista Don Alfonso si confronta con la saggezza popolare di Despina, mentre al materialismo di Dorabella e Guglielmo fa da contraltare l’idealismo di Ferrando e Fiordiligi. Forse le coppie create per gioco o per esperimento scientifico da Don Alfonso sono anche meglio assortite di quelle iniziali, ad ogni modo in amore è meglio non essere troppo creduloni e far buon viso a cattivo gioco, se necessario. Come dice il finale, “Fortunato l’uom che prende ogni cosa pel buon verso, e tra i casi e le vicende da ragion guidar si fa. Quel che suole altrui far piangere fia per lui cagion di riso, e del mondo in mezzo ai turbini bella calma troverà.” 

Parlando in particolare di questo allestimento, siamo un po’alle solite: pare che qualche medico abbia prescritto a tutti i registi che si cimentano colla lirica di cercare di aggiungere qualcosa di proprio alla messa in scena di spettacoli in cartellone da più di duecento anni, quindi si parte lancia in resta alla ricerca di chissà quale nuova interpretazione e nuova verità. Cito testualmente da una intervista di Claus Guth: “il testo e la musica generano diverse sfumature dell'amore...la forza dell'eros genera inganno e tradimento e porta con sé in egual misura qualcosa di vitale e qualcosa di distruttivo. Il disinganno e la disillusione si accompagnano al cupo, sprezzante e freddo cinismo. Si canta l'amore ma si recita il tradimento, che inizia come un gioco innocuo e infine si conclude con una catastrofe umana”. Ma siamo proprio sicuri che Mozart e Da Ponte nel 1790 la pensassero esattamente così? 

L’opera allestita da Guth e Barenboim nel complesso sembra perdere parte della sua allegria e giocosità e questo purtroppo si riflette anche sulle prestazioni dei cantanti, che a mio parere meriterebbero una seconda occasione in condizioni migliori. Speriamo quindi di rivedere presto un’opera di altissimo livello come Così fan tutte con una regia più vicina alle intenzioni del compositore. 

 

SERATA PETIT - Teatro alla Scala, Milano – 28 maggio / 20 giugno 2014

La Stagione di Balletto del Teatro alla Scala prosegue con Serata Petit, ovvero un’ottima occasione per vedere due lavori del coreografo francese Roland Petit:

 

· Le Jeune homme et la Mort

 

· Pink Floyd Ballet

Si tratta di due balletti indipendenti accomunati solamente dalla paternità della coreografia, ed in effetti sorprende un po’vederli accostati nella sessa serata.

Le Jeune Homme et La Mort è stato coreografato da Roland Petit nel 1946 utilizzando le musiche della Passacaglia e tema fugato in Do minore di Johann Sebastian Bach e un libretto di Jean Cocteau. Il balletto racconta la storia di un giovane che decide di impiccarsi perché respinto, deriso e abbandonato dalla ragazza oggetto del suo amore. La morte gli apparirà quindi nella forma di una fanciulla fredda ma estremamente seducente, che al togliersi della maschera rivelerà le stesse fattezze della ragazza amata. La maschera di morte passerà quindi sul volto del giovane e la fanciulla lo condurrà per mano tra i tetti di Parigi verso il suo tragico destino.

Qualcuno ha definito Le Jeune Homme et La Mort un balletto esistenzialista, dove il protagonista è alla ricerca di una sua solida identità dopo il dramma della seconda guerra mondiale.

Si può dire che Petit, che all’epoca era solo ventunenne ma aveva già fondato una sua compagnia di ballo (i Ballets des Champs Elysées), abbia trasferito le sue inquietudini al protagonista, e dal balletto traspare chiaramente la forte carica emotiva che il coreografo ha messo nel suo lavoro.

Nonostante sia un’opera giovanile che ha avuto qualche problema di gestazione, come la mancanza di fondi per la scenografia e la scelta definitiva della musica effettuata solamente al momento della prova generale, questo balletto è considerato uno dei capolavori di Roland Petit, e grazie alla modernità di coreografia e costumi non dimostra certo i suoi quasi settant’anni di età.

Nel 1972, anno della prima rappresentazione di Pink Floyd Ballet, Petit è invece un coreografo di fama mondiale ma non è rimasto ancorato al passato, anzi guarda con attenzione ai fermenti culturali dell’epoca.

La genesi del balletto è a dir poco inconsueta. Secondo le parole dello stesso Petit, «Il “Pink Floyd Ballet” è nato grazie a mia figlia. Mi disse che dovevo andare assolutamente a Londra ad ascoltare questa band inglese. E poi che dovevo farci un balletto». L’idea quasi casuale di una quindicenne ha dato il via ad una sperimentazione che si è trasformata a poco a poco in un classico, grazie anche ai musicisti britannici. Infatti, sempre secondo Petit, «Quando gli proposi l’idea, i Pink Floyd la raccolsero subito. Non solo accettarono di suonare, ma si offrirono anche di modificare alcune parti dei brani in funzione del balletto».

La prima assoluta si tenne al Palais des Sports di Marsiglia, con la musica dal vivo dei Pink Floyd. Quindi Petit ha potuto sperimentare liberamente lontano dal pubblico sicuramente più tradizionalista dei teatri: si sa infatti che uno dei rischi di queste operazioni ibride è quello di scontentare un po’ tutti, in questo caso i fan del balletto classico da un lato e quelli della musica rock dall’altro.

Il successo è stato invece immediato e il balletto, inizialmente di soli quattro movimenti, è stato mano a mano ampliato: la versione presentata questa stagione è composta da nove brani ma quella presentata alla Scala nel 2009 ne comprendeva ben tredici. E’ stata anche ovviamente abbandonata la musica dal vivo a favore di una base registrata.

Quindi, come dicevamo, le due parti di Serata Petit non potrebbero essere più diverse: da una parte Le Jeune Homme et La Mort, un balletto nella scia della tradizione delle Scuole Francese e Russa, con solo due ballerini in scena, scenografie evocative, costumi e un finale tragico, in poche parole un trionfo della classicità; dall’altra Pink Floyd Ballet, che non è pensato per solisti ma per un intero corpo di ballo, dove i costumi sono semplici calzamaglie e le scenografie sono sostituite dagli effetti di luci laser e di fumo tipici dei concerti rock, e che sprigiona un’energia a dir poco contagiosa.

Questo accostamento ci permette però di capire come Roland Petit sia stato un’artista eclettico, sempre attento al mondo che lo circondava e non fossilizzato su schemi classici.

Per quanto riguarda in particolare questa edizione posso dire di aver assistito a uno spettacolo veramente degno di un teatro cole la Scala, quindi un applauso ai solisti Ivan Vasiliev (Le Jeune homme) e Nicoletta Manni (La Mort), ma soprattutto al corpo di ballo nel suo insieme. L’étoile Massimo Murru ha detto, in occasione di una precedente rappresentazione: “Ci siamo divertiti, ma abbiamo fatto anche molta fatica per preparare lo spettacolo” e ho avuto l’impressione che anche questa volta i ballerini nonostante la fatica si siano divertiti nell’interpretare qualcosa fuori dai soliti schemi ed è stato bello vederli ricambiare l’affetto del pubblico in sala con un bis.

 

 

LA FAMIGLIA DELL’ANTIQUARIO – Piccolo Teatro Grassi, Milano – 4 / 15 giugno 2013

 

Questa volta abbiamo per gli amici del Gallo Parlante una recensione un po’fuori dal comune: quella di una nuova produzione della “Primaria Compagnia Italiana di Grandi Spettacoli Marionettistici Carlo Colla & Figli”, che già dalla stagione teatrale 2000/2001 presenta i suoi spettacoli anche nelle sale del Piccolo Teatro di Milano oltre che nella sua sede naturale, ovvero l’Atelier di Via Montegani sempre a Milano. 

Avete capito bene, si tratta di uno spettacolo di marionette. Ma non aspettatevi un prodotto per bambini: il repertorio della Carlo Colla & Figli include sì favole (La lampada di Aladino, il Pifferaio magico, La bella addormentata nel bosco solo per citarne alcune) ma anche trasposizioni di opere liriche (Aida, Il Trovatore, Nabucco), lavori di prosa (tratti da romanzi come Il giro del mondo in 80 giorni, Michele Strogoff , I promessi sposi o addirittura da testi teatrali come La tempesta di Shakespeare nella traduzione di Eduardo De Filippo) e perfino balletti classici appositamente rielaborati (Excelsior, Petruschka, Sheherazade).

 Guardando gli spettacoli della Carlo Colla & Figli si capisce tutta la differenza tra la marionetta, che è di origine nobile ed è stata impiegata anche per spettacoli a sfondo religioso, e il più umile e popolare burattino. La prima si comanda dall’alto e a distanza, e solo animatori di grande tecnica riescono a farla muovere con la grazia e leggerezza richiesta, il secondo invece ha movimenti ed espressività limitati e inoltre l’animatore è in contatto diretto con il personaggio perché gli dà vita dal basso, indossandolo come un guanto e trasmettendogli la sua fisicità.Anche la realizzazione dei due protagonisti del cosiddetto teatro di figura non potrebbe essere più diversa: tanto è raffinata ed elegante la marionetta, con la sua struttura equilibrata da contrappesi e i suoi costumi degni di una sartoria, quanto è semplice il burattino, non solo nella sua costruzione in tre sole parti (testa, mani e veste cava) ma anche nella anche la distinzione tra i vari personaggi, che sono sempre riconoscibili alla prima occhiata perché il burattinaio segue schemi tradizionali, essenziali e collaudatissimi, sia per il colore dei vestiti sia per le altre caratteristiche.Si potrebbe dire che la marionetta è non solo una riproduzione ma quasi un’idealizzazione dell’uomo, una ricerca della perfezione, mentre il burattino, con la sua forma non ben definita, la testa enorme e l’assenza di gambe ne è la caricatura, e questo si riflette anche sul tipo di storie raccontate con questi mezzi. In questa nuova produzione le marionette della Carlo Colla & Figli si cimentano con un grande classico del teatro italiano: La famiglia dell’antiquario di Carlo Goldoni, scritto nel 1749, che è uno dei momenti fondamentali nel passaggio dalla commedia dell’arte, a canovaccio e con recitazione a soggetto, al teatro moderno con un testo codificato. Si tratta di un lavoro ispirato chiaramente dalla società dell’epoca con evidenti elementi di satira. Nella commedia, che ruota intorno alla lotta tra suocera e nuora di differenti estrazioni sociali, vediamo sia lo scontro fra generazioni che quello fra classi: la suocera infatti è la Contessa Isabella, dama nobile ed orgogliosa, la nuora è invece la borghese Doralice, figlia di un ricco mercante e conscia del fatto che è stata la sua dote a salvare la famiglia nobile dalla bancarotta, quindi ben decisa a far valere i propri diritti. Fanno da corollario il Conte Anselmo che si disinteressa degli affari di famiglia per occuparsi solo della sua collezione di presunte antichità, suo figlio Giacinto sballottato tra madre e moglie, i servi Brighella, Arlecchino e Colombina che usano la loro furbizia da popolani per spillare soldi ai padroni approfittando dei loro punti deboli, il Cavaliere del Bosco e il Dottor Anselmi, due amici di famiglia parassiti ed inconcludenti ma soprattutto Pantalone de’Bisognosi, padre di Doralice, che per amore della figlia si fa infine carico col suo buonsenso della gestione della famiglia del Conte Anselmo in quello che non è un classico lieto fine. La famiglia dell'antiquario è quasi un manifesto della satira sociale di Goldoni: Pantalone è una sorta di sintesi delle buone qualità del mercante veneziano, la nobiltà è parassitaria, disinteressata alla realtà ma arroccata sui propri privilegi mentre i servi, seguendo gli schemi della commedia dell'arte, sfruttano la loro intelligenza per scopi non certo nobili. Per l’occasione i marionettisti hanno realizzato una meravigliosa scenografia con tre ambienti separati e visibili contemporaneamente, inseriti in un boccascena che raffigura un antico palazzo veneziano. Questo consente di mostrare al pubblico allo stesso tempo sia quello che avviene nelle stanze delle due signore, sia in un altro ambiente della casa, aumentando il ritmo e diminuendo i cambi di scena “vecchio stile”, che però non disturbano affatto: anzi aggiungono un certo fascino retrò al tutto. Le marionette recitano “in playback”, doppiate da un’ottima compagnia di attori ed accompagnate dalle musiche di Antonio Salieri, e grazie alla bravura degli undici marionettisti si muovono con eleganza e grande realismo. La Compagnia Carlo Colla & Figli è giustamente considerata un orgoglio del teatro milanese (e conosciuta nel mondo: questa stagione la tournée ha toccato anche New York e Boston) perché riesce quasi sempre a mettere un tocco di magia nei suoi spettacoli, e se dovesse passare per la vostra città cogliete l’occasione per una serata diversa dal solito. Un solo consiglio: non portate bambini troppo piccoli, rischiereste di annoiarli. Meglio dai 7 anni in su.

 

 

PROGETTO POLLINI – Teatro alla Scala, Milano–19 maggio 2014

 Lunedì 19 maggio si è concluso il ciclo del “Progetto Pollini” per la stagione 2013/2014 con il quarto ed ultimo concerto, che aveva in programma: 

· una composizione del 1992 di Helmut Lachenmann: “...zwei Gefühle”, Musik mit Leonardo” per voce recitante ed un ensemble di 22 strumentisti e un assistente per il pianista

· le Sonate in mi magg, op. 109, in la bem magg, op. 110 e in do min. op. 111 di Ludwig van Beethoven 

Come già detto in occasione del primo concerto, l’idea alla base del ciclo è quella far conoscere la musica contemporanea ad un pubblico più vasto solitamente non interessato a questi lavori. Quindi ognuna delle quattro serate è stata divisa in due parti ben distinte, una dedicata alla classicità e l’altra alla contemporaneità. 

Per l’ultimo concerto è stato invitato il Maestro Helmut Lachenmann, che ha svolto la funzione di voce recitante per il suo “...zwei Gefühle”, Musik mit Leonardo”, eseguito per l’occasione dai musicisti della Ensemble Musikfabrik di Colonia. Il compositore parte da un testo di Leonardo da Vinci, che narra di un uomo che assiste allo spettacolo di onde rabbiose che si infrangono tra i mitici mostri Scilla e Cariddi, nello Stretto di Messina, e di violente eruzioni ed esplosioni dei vulcani Etna e Stromboli, interrogandosi sulla potenza e la varietà della natura. Il protagonista si imbatte poi nell’ingresso di una fredda e buia caverna, dove rimane in preda a emozioni contrastanti: vincerà la paura dell’ignoto o la curiosità e il desiderio di svelare i misteri in essa contenuti? 

Il testo, tradotto in lingua tedesca, è stato scomposto dall’autore in elementi fonetici nelle varie battute sul pentagramma, e spesso l’ordine delle sillabe è alterato: questo rende necessario un lavoro di decifrazione da parte del pubblico che necessita grande attenzione e un po’di memoria, a patto ovviamente che si conosca la lingua. 

La partitura è incredibilmente dettagliata con istruzioni speciali per gli strumentisti su come raggiungere gli effetti desiderati dal compositore, riguardanti anche la posizione da assumere per ottenere sonorità particolari: ad esempio è richiesto agli ottoni di suonare alcune note con lo strumento all’interno della cassa armonica del pianoforte per creare effetti di eco, e lo stesso pianista necessita di un assistente per aprire o chiudere il coperchio dello strumento variando gli effetti sonori. 

Lachenmann definisce infatti le sue composizioni musica concreta strumentale, che usa come abbiamo visto tecniche interpretative non convenzionali per arrivare ad un linguaggio musicale che comprende il mondo sonoro nella sua totalità, incluso il “rumore”, superando il concetto di musica tonale. 

Al proposito mi permetto di citare la motivazione con cui nel 2008 a Lachenmann è stato assegnato il Leone d'oro alla carriera del 52° Festival Internazionale di Musica Contemporanea della Biennale di Venezia (i meno giovani non faranno però fatica a immaginare questa prosa nella rubrica “Parla come mangi” del settimanale satirico degli anni ‘90 Cuore): “La concezione molto radicale e utopica a un tempo di un suono disseccato, spogliato di peso semantico fino a raggiungere uno stato che si può definire "minerale", ha emblematicamente siglato le estreme conseguenze dell'avanguardia musicale strutturalista. Ma contemporaneamente, e questo è l'aspetto forse più interessante e anche sorprendente, ha aperto un nuovo mondo sonoro forzando provocatoriamente i limiti della percezione. Nata da una concezione negativa dell'orizzonte semantico, ha infine dischiuso una nuova idea di linguaggio e, per così dire, una nuova forma di “verginità” della materia sonora”. 

Tornando però al nostro concerto, il risultato di questo grande sforzo compositivo sono trenta minuti abbondanti di stridii, colpi, note strappate o lasciate a metà, rumori vari e mezze parole in libertà a cui è arduo dare un senso. Di sicuro non faceva pensare a Leonardo, Scilla e Cariddi, l’Etna, Stromboli e così via. 

La maggior parte del pubblico ha sofferto in religioso silenzio per questa mezz’ora abbondante, per poi dividersi tra “buu” di disapprovazione, un insulto e un eloquente “ma và alla Baggina” (il Pio Albergo Trivulzio, celebre ospizio milanese per anziani – il Maestro Lachenmann è nato nel 1935), e applausi che a mio parere erano in parte sinceri e in parte di stima, per compensare la maleducazione di qualche ascoltatore. 

Tutt’altra musica invece per le Sonate di Beethoven, eseguite da Maurizio Pollini con la solita classe ed eleganza: sempre impeccabile, ha emozionato il pubblico in sala meritandosi grandi applausi. Purtroppo però anche questa volta il Maestro non ha potuto concedere dei bis. 

Se però da una parte l’iniziativa di unire la musica classica alla contemporanea è lodevole e motivata dal desiderio di conquistare nuove fasce di pubblico per quest’ultima, dall’altra mi chiedo con quale criterio siano scelti i pezzi da eseguire: personalmente non penso che molti spettatori che non fossero già amanti della musica contemporanea siano rimasti folgorati sulla via di Damasco da un’opera come questa e siano quindi usciti dal teatro con la voglia di ripetere l’esperienza. 

A questo punto chiuderei un piccolo suggerimento: se l’intenzione di avvicinare il grande pubblico alla musica contemporanea per farla uscire dalla sua autoreferenzialità e dal suo autocompiacimento è come credo sincera, perché è veramente bello vedere altra gente appassionarsi alle cose che ci piacciono, forse conviene partire da qualcosa di più semplice e ascoltabile così che l’ascoltatore possa procedere un po’per gradi. Diversamente, insistendo in scelte come questa si rischia di ottenere l’effetto opposto, facendo vivere alla maggior parte del pubblico una metà del concerto solo come una sorta di pena da scontare per avere in premio le magie di Pollini.