CIBO E CULTURA

 

Comprende consigli pratici

Ricette ed articoli.
La rubrica è seguita dalla  Sig.a  Primiceri Presidente dell’unione nazionale pizzaioli.
 Inoltre  arricchita da Eventi  di  cultura  di  Spettacoli vari.

 LA RUBRICA CULTURA  E' SEGUITA  DAL  SIG. MAURO FERRARIO. 

 

 

 

IL LAGO DEI CIGNI – Teatro alla Scala, Milano – 15 aprile / 11 maggio 2014. 

Il Lago dei Cigni torna al Teatro alla Scala anche per la stagione 2013/2014, ancora una volta (come già nell’ottobre dello scorso anno) con la coreografia “riveduta e corretta” da Rudolf Nureyev. 

Come già detto in occasione della scorsa rappresentazione, Il Lago dei Cigni è uno dei grandi classici della storia del balletto, sicuramente uno dei titoli che anche i non amanti della danza sulle punte conoscono. Rudolf Nureyev è partito dalla coreografia classica del 1895 di Marius Petipa e Lev Ivanov, intervenendo però in modo significativo sui due protagonisti maschili: il Principe Siegfried e il Precettore Wolfgang / Mago Rothbart, il doppio ruolo che Nureyev aveva scelto per sé in occasione del debutto alla Scala di questa nuova coreografia. 

Un passaggio emblematico di questa diversa interpretazione del grande classico lo troviamo già nel primo atto: il Principe Siegfried è distratto dal sogno della principessa rapita da una creatura maligna, è apatico e disinteressato, quindi tocca al precettore cercare di scuoterlo e distrarlo, riportarlo alla realtà e ai suoi doveri coinvolgendolo in un pas-des-deux tutto al maschile abbastanza inconsueto per la tradizione del balletto classico. 

Ma nonostante gli sforzi del precettore il Principe Siegfried rimane fortemente legato a questo sogno: la donna cigno gli riappare, e tra i due nasce l’amore. Il Principe promette quindi a Odette l’eterna fedeltà che servirà a liberarla dall’incantesimo del Mago Rothbart: Siegfried rifiuterà infatti tutte le pretendenti, ma sarà infine ingannato dal cigno nero Odile, figlia di Rothbart e perfetta sosia di Odette. Sigfried dichiara il suo amore a Odile perciò tradisce, seppur involontariamente, la sua amata e l’incantesimo non può essere spezzato: a nulla serve il disperato tentativo del quarto atto, quando il Principe Sigfried lotta col malvagio Mago Rothbart per la salvezza della Principessa Odette, uscendo però sconfitto dalla battaglia (ma regalandoci un meraviglioso passo a tre). 

Molti hanno visto degli elementi della personalità del grande ballerino e coreografo russo emergere in questo suo lavoro: ad esempio dal rapporto di Siegfried con il precettore trasparirebbe l’omosessualità di Nureyev e il suo modo di rapportarsi con i due sessi, mentre Odette potrebbe rappresentare un ideale anche spirituale a cui aspirare e il malvagio Rothbart l’ostacolo da superare per raggiungerlo. 

Lasciando però un attimo da parte queste interpretazioni psicologiche, lo spettacolo non manca di momenti di grande intensità e lirismo: basti pensare ad esempio, oltre a quanto già citato, al pas-des-deux di Odette e Siegfried del secondo atto. 

Come di consueto i ballerini si alternano nelle varie serate, e questa volta abbiamo visto nei ruoli principali di Odette/Odile, Sigfried e Rothbart rispettivamente Polina Semionova, Carlo Di Lanno e Marco Agostino. La talentuosa ballerina russa, attualmente in forza all’American Ballet Theatre e a Milano come artista ospite, non avrebbe bisogno di grandi presentazioni: ora trentenne, ha debuttato come Prima Ballerina presso il Teatro dell'Opera di Stato a Berlino già a 17 anni (un piccolo record) e da allora ha sempre danzato ad altissimi livelli. 

Ma i coprotagonisti maschili in particolare e il Corpo di Ballo della Scala in generale hanno supportato bene Polina Semionova, non sfigurando affatto: ad esempio il giovane Carlo Di Lanno sta accumulando ottime esperienze e affinando il talento insieme a stelle di prima grandezza come Polina Semionova e Svetlana Zakharova. Quindi speriamo che ci sia sempre più spazio per la crescita dei nostri giovani.

 

NUDA PROPRIETA’ - Teatro Carcano, Milano – dal 26 febbraio al 16 marzo 2014

 Scusandomi per il ritardo, vorrei spendere due parole su uno spettacolo visto ormai più di un mese fa a Milano: si tratta di Nuda proprietà, una commedia che Lidia Ravera ha tratto dal suo romanzo Piangi pure, interpretato da Lella Costa, Paolo Calabresi, Claudia Gusmano e Marco Palvetti. 

Nuda proprietà è la storia di un amore strano, fuori dagli schemi convenzionali: Iris (Lella Costa) ha sessant’anni ma non li dimostra, è attiva, curiosa e in gran forma, ma ha un problema: ha finito i soldi e non ha una pensione su cui contare, l’unica sua risorsa è ora l’appartamento in cui vive. Quindi decide da una parte di subaffittare una stanza a Carlo (Paolo Calabresi), uno psicanalista alla ricerca di un nuovo studio dopo essere stato sfrattato da quello al pianterreno, dall’altra di vendere l’appartamento in nuda proprietà, cercando di massimizzare il profitto fingendo di essere molto più vecchia e male in arnese di quanto non sia in realtà. 

I due nuovi coinquilini sono molto incuriositi uno dall’altra: Carlo, abituato dal suo lavoro ad osservare e analizzare i pazienti, resta affascinato da Iris, che è arruffona e scombinata ma vitale e certo mai banale, mentre Iris trova in lui non solo la capacità di ascoltare e capire la gente tipica della sua professione, ma anche intelligenza, affidabilità e ironia. 

Proprio mentre i due protagonisti si stanno rendendo conto della nascita di uno strano amore piomba nelle loro vite Melina (Claudia Gusmano), la nipotina di Iris, giovane, bella ma tutt’altro che innocente e senza troppi scrupoli morali, perciò ben decisa a sfruttare questi suoi assi nella manica nella vita, mentre anche il compratore dell’appartamento, Marra (Marco Palvetti), si dimostra essere un poco di buono. 

Ma il vero punto di svolta della commedia e quindi del rapporto tra i due protagonisti è la grave malattia di Carlo, che sente quindi sempre di più la necessità di forzare la sua personalità e le sue abitudini per aprirsi con Iris, rivelando i suoi sentimenti. Iris invece si trova nella situazione per lei inconsueta di ascoltatrice, e scopre di non poter più fare a meno di questo uomo. Perciò i due decidono di trascorrere il resto delle loro vite insieme, condividendo sentimenti, gioie e paure senza timore di guardare in faccia la realtà. Anche Melina e Marra si riscattano nel finale con un gesto altruista che contrasta con la loro natura cinica. 

Lidia Ravera ha una lunga carriera alle spalle, cominciata negli anni ’70 insieme a Marco Lombardo Radice con un romanzo che è stato un cult per i ragazzi dell’epoca, ovvero Porci con le ali (leggetelo e non ve ne pentirete), e proseguita fino ad oggi tra giornalismo, libri e teatro. Per Nuda proprietà ha affidato il testo alla regista Emanuela Giordano e al talento d’attrice di Lella Costa, che ha lasciato per la prima volta i suoi amati monologhi per affrontare una commedia. Regista ed autrice hanno visto in lei molte affinità con il personaggio di Iris, e francamente non mi sento di contraddirle. 

Però non scopro certo io Lella Costa come attrice e il suo nome insieme a quello di Lidia Ravera ha fatto sicuramente da richiamo per il pubblico, ma il resto del cast mi ha piacevolmente sorpreso, in particolare il coprotagonista Paolo Calabresi, forse più noto per le sue apparizioni in TV ne Le Iene che per la sua carriera teatrale e cinematografica. 

Insomma un’ora e mezza di divertimento intelligente, una commedia agrodolce che affronta temi molto attuali ma inconsueti e non certo semplici, con personaggi ben tratteggiati e ben interpretati. Mi ha fatto anche piacere sentire una femminista storica come Lidia Ravera parlare con orgoglio del suo protagonista maschile, definendolo “uno di quelli che sogni di incontrare ad una festa e di farli innamorare. Uno di quelli che non smetti mai di sognare.”. 

Guardando questa commedia, per dirla con le parole della regista, “Si ride del nostro egoismo, delle nostre paure, dei nostri legittimi bisogni, si ride ma anche si spera che qualcuno abbia davvero voglia di ascoltarci, di starci vicino, di tenderci una mano, di sfiorarci con una carezza”.

 

LES TROYENS - Teatro alla Scala, Milano – 8 / 30 aprile 2014

 Dopo Il Trovatore è il turno alla Scala di Les Troyens (I Troiani), una Grand-Opéra in cinque atti su musica e libretto di Hector Berlioz ispirato all’Eneide di Virgilio, una nuova produzione in collaborazione con la Royal Opera House di Londra, la San Francisco Opera e la Wiener Staatsoper. 

Berlioz compose Les Troyens tra il 1856 ed il 1858, quindi a circa vent’anni dal Benvenuto Cellini, la sua opera lirica precedente, che fu un fiasco tale da indurlo a lavorare su altre forme di espressione musicale. 

Ma anche Les Troyens ebbe una storia molto travagliata: sicuramente gli impresari teatrali erano un po’spaventati non solo dalla durata Wagneriana, di circa quattro ore, ma anche dalla necessità di ingaggiare un vastissimo cast di cantanti, coristi, ballerini e orchestrali, oltre che dall’investimento da affrontare per la scenografia, che prevede la ricostruzione delle mura di Troia, del celeberrimo cavallo e della città di Cartagine. Infatti dopo la rivoluzione del 1848 l’interesse del pubblico francese per il pomposo genere Grand-Opéra con il suo lusso e i suoi eccessi scemò, e grandi investimenti come quelli della prima metà del secolo non furono quindi più possibili. 

Per poter essere portata in scena l’opera fu quindi divisa in due parti: La Prise de Troie (che corrisponde agli atti I e II), della durata di un'ora e mezza, e Les Troyens à Carthage (che corrisponde agli atti III, IV e V), di due ore e mezza. Berlioz riuscì ad assistere solamente alla rappresentazione della seconda parte, a Parigi nel 1863, mentre la prima parte fu eseguita postuma in forma di concerto nel 1879. 

La prima rappresentazione integrale (ma divisa in due serate consecutive) ebbe invece luogo a Karlsruhe il 6 e il 7 dicembre 1890, quindi ben 32 anni dopo la sua composizione. 

Les Troyens à Carthage riscosse un discreto successo tra il pubblico ed ebbe buone critiche, ciononostante le rappresentazioni non furono molte, e per rivedere una versione integrale e in una sola serata dell’opera che rispecchiasse le intenzioni di Berlioz si è dovuto attendere fino all’edizione del 1957 alla Royal Opera House di Londra con la regia del grande attore Shakespeariano Sir John Gielgud. Ma anche dopo questa data le già citate difficoltà di allestimento hanno continuato a condizionare la vita di quest’opera: infatti anche per questa edizione alla Scala è stata necessaria la collaborazione di ben quattro grandi teatri lirici. 

Tornando all’opera in sé, si può dire che sia stata concepita sotto l’influenza di Virgilio (come sappiamo è ispirata all’Eneide) ma anche di Shakespeare. Quindi abbiamo una miscela di tragedia classica e di romanticismo, con momenti prosaici che contrastano con uno stile prevalentemente “alto”. Ma questo non incontrò i gusti dei Francesi: secondo Berlioz stesso, “In Francia il mélange di tragico e comico è considerato pericoloso, se non insopportabile […]. D’altronde per la maggioranza dei francesi Shakespeare è come il sole per le talpe”. 

Forse anche in conseguenza di questo richiamo alla classicità Berlioz, pur partendo sempre dalle sue radici romantiche, usò per Les Troyens uno stile formalistico e decisamente rivolto al passato, che non abbandona o nasconde l’impianto tradizionale a pezzi chiusi presente nell’opera, e ciò non aiutò questo lavoro ad affermarsi in epoca wagneriana. Berlioz scrisse che per lui la cosa essenziale era “trovare la forma musicale, la forma senza la quale la musica non esiste o diventa la schiava umiliata della parola. Questo è il crimine di Wagner”. Ma la scelta di uno stile classico non impedì a Berlioz di orchestrare in modo molto moderno ed efficace. I limiti di Les Troyens sono a mio parere da cercare più nella sua struttura di Grand-Opéra (con i suoi pregi ed i suoi difetti, primo tra tutti la mancanza di sintesi – talvolta si ha la sensazione di trovarsi di fronte a parti non propriamente indispensabili) che alla scrittura di Berlioz. 

Parlando in dettaglio di questo allestimento, devo dire che la collaborazione tra i quattro grandi teatri di cui sopra ci ha offerto per una volta un cast veramente stellare: Sir Antonio Pappano alla sua prima direzione scaligera ha ricavato il meglio dall’orchestra, dal coro (che in quest’opera ha una parte importante) e dai cantanti, e in particolare dalle protagoniste femminili Cassandra e Didone, interpretate rispettivamente dalle magnifiche Anna Caterina Antonacci e Daniela Barcellona, brave tanto nella recitazione quanto nel canto. Un piccolo gradino più in basso porrei invece l’Enea di Gregory Kunde, che però ha un ruolo più gravoso dovendo restare in scena per tutti i cinque atti in situazioni molto diverse tra di loro. Ma è stata la prestazione d’insieme, anche dei cantanti a cui sono stati affidati dei ruoli minori, ad essere di altissimo livello: l’ovazione tributata dal pubblico alla prima è stata sicuramente meritata. 

Anche la regia di David McVicar e le scene di Es Devlin sono stati giustamente molto apprezzati. Mi è particolarmente piaciuto il contrasto tra la prima parte, dove le mura di Troia sono costituite da una grezza struttura metallica, e la seconda, dove Cartagine sembra una città imperiale del Marocco, con le sue rocce di arenaria color ocra. Una menzione speciale merita anche lo spettacolare Cavallo di Troia simbolicamente costruito con residuati bellici, così come il gigantesco guerriero che domina la scena alla fine del quinto atto. Il bellissimo impianto luci di Wolfgang Göbbel ha contribuito a dare a queste scene un’atmosfera magica. Decisamente meno convincenti i costumi (in particolare nella prima parte), ispirati a vestiti e uniformi di metà ottocento e che stridevano un po’ sia col libretto, sia colle scene. 

Speriamo comunque di poter presto avere nuovamente alla Scala Sir Antonio Pappano e un cast di cantanti di questo livello, anche per opere meno impegnative dal punto di vista produttivo.

 

JEWELS - Teatro alla Scala, Milano – 9 marzo / 4 aprile 2014 

Il secondo titolo della Stagione di balletto del Teatro alla Scala è Jewels, uno dei capolavori di George Balanchine, che si compone di tre parti spesso rappresentate anche separatamente: 

· Smeraldi (Emeralds): su musiche di Gabriel Fauré, da Pelléas et Mélisande (1898) e Shylock (1889). 

· Rubini (Rubies): sul Capriccio per piano e orchestra (1929) di Igor Stravinsky. 

· Diamanti (Diamonds): sulla Sinfonia n°3 in re maggiore "Polonaise", op. 29 (1875) di Pëtr Il'ič Čajkovskij. 

Questo lavoro ha debuttato nell’aprile 1967 al New York State Theater, e può essere considerato come il primo balletto astratto di durata “standard”: quindi per la prima volta non c’era una storia da raccontare ma solo la pura danza, per un’intera serata. Filo conduttore del balletto sono i costumi, ispirati ai gioielli da cui prendono il nome i tre movimenti e ai loro colori. 

George Balanchine in alcune dichiarazioni ci ha suggerito che questo balletto è nato osservando le affascinanti vetrine di gioielli della Fifth Avenue di New York (in particolare le creazioni di Claude Arpels): il balletto sarebbe quindi un elogio di due tipi di bellezza, quella della danza e quella delle gemme preziose.

I tre movimenti, diversi tra loro per musiche, colori e atmosfere, sono rappresentativi sia del percorso formativo del grande coreografo georgiano, sia del suo rapporto con la musica e con i compositori con i quali ha cooperato. In particolare Jewels è un omaggio alle tre grandi scuole di danza che più lo hanno influenzato: rispettivamente il romanticismo francese dell’ottocento per Smeraldi, la tradizione americana dei musical di Broadway per Rubini e il balletto Imperiale Russo con sua tipica grandeur per Diamanti. 

George Balanchine si è infatti inizialmente formato alla Scuola Imperiale di Balletto di San Pietroburgo per poi passare su invito dell’impresario Sergej Djagilev alla compagnia dei Ballets Russes, itinerante ma con base tra Parigi e Monte Carlo, ed approdare infine negli Stati Uniti, dove avrebbe fondato prima la School of American Ballet e poi il New York City Ballet. 

Il coreografo non vide mai realizzato il suo sogno di vedere Jewels rappresentato dalle compagnie riunite del Teatro Mariinskij, dell'Opéra di Parigi e del New York City Ballet. Il balletto è però ora parte del repertorio di queste tre compagnie ed è considerato uno dei più significativi del XX secolo. 

Come abbiamo già detto, i costumi svolgono un ruolo fondamentale in questo balletto e il lavoro di Barbara Karinska, collaboratrice di Balanchine fin dai tempi dei Ballets Russes a Monte Carlo, è stato fantastico. I colori sono una vera festa per gli occhi: si parte con romantiche gonne di tulle verde smeraldo lunghe fino al polpaccio (Smeraldi), per continuare con il rosso rubino di costumi che si aprono sulle anche (Rubini) e terminare con il bianco luminoso di classici tutù in perfetto stile da Balletto Imperiale Russo (Diamanti). 

Anche il gioielliere Arpels pare sia rimasto stupito dalla luminosità dei costumi, che riproducevano fedelmente lo scintillio delle pietre preziose grazie alla scelta e alla lavorazione dei tessuti e alla maestria nel ricamo. Non è un caso che gli originali siano stati esposti in musei o nel foyer di diversi teatri: le creazioni di Barbara Karinska sono belle non solo da vedere ma anche da indossare, in quanto adatte alla danza e resistenti alla grande usura a cui sono sottoposti normalmente i costumi per il balletto. A proposito del suo lavoro, la costumista ha dichiarato: "Io faccio la sarta per ragazze e ragazzi che fanno ballare i miei costumi; i loro corpi meritano i miei vestiti." 

Per quanto riguarda in particolare questo allestimento, personalmente ho assistito a una delle tre serate “autarchiche”, con cast tutto proveniente dal Corpo di Ballo del Teatro alla Scala. I solisti, pur scambiandosi i ruoli nelle diverse date, a mio parere non hanno fatto rimpiangere con la loro interpretazione i bravi e prestigiosi ospiti stranieri delle prime tre rappresentazioni (Polina Semionova, Ivan Vasiliev e Friedemann Vogel). Quindi speriamo di rivedere presto questi nostri ragazzi (citiamoli tutti per premiare la prestazione d’insieme: Beatrice Carbone, Lusymay Di Stefano, Nicoletta Manni, Virna Toppi, Vittoria Valerio e i loro compagni Alessandro Grillo, Antonino Sutera, Carlo Di Lanno, Claudio Coviello e Marco Agostino) nuovamente sul palco.

DISOINIBILE  IL VIDEO DELLA  VIE  DELLA  PIZZA, LA  RASSEGNA  MENSILE  DELLE  SERATE  DEDICATE  ALLE  PIZZE EGIONALI  .INIZIATVA  APES CHE  SI  CONCLUDERA' A  GIUGNO.

A  BREVE  SEGUIRA'  IL VIDEO  DELLA  SECONDA  SERATA.

IL TROVATORE–Teatro alla Scala Milano–15 febbraio/7 marzo 2014

 Dopo La Traviata, il Teatro alla Scala ha messo in cartellone per la stagione 2013/2014 un altro pezzo della cosiddetta Trilogia popolare di Giuseppe Verdi: Il Trovatore. Quest’opera, presentata in prima assoluta nel 1853, ebbe grandissimo successo fin dalla prima rappresentazione, e non ha mai smesso di piacere al pubblico. 

Si tratta di un adattamento dell’omonimo dramma spagnolo di Antonio García Gutiérrez, che aveva riscosso un buon successo all’epoca. In questo testo non mancavano certo gli spunti per un melodramma degno di questo nome: scambio di bambini nella culla, streghe bruciate sul rogo, amori impossibili, odio, gelosia, desiderio di vendetta, il tutto sullo sfondo della lotta per la successione in Aragona, che offre lo spunto per combattimenti ed eroismi. 

Questo intreccio tutt’altro che scorrevole è stato però notevolmente semplificato da Salvadore Cammarano in fase di stesura del libretto, rinunciando allo sfondo storico per concentrarsi sulle vicende, le passioni e i contrasti tra i personaggi, con un classico triangolo amoroso tra soprano, tenore e l’antagonista baritono, ovvero Leonora, Manrico e il Conte di Luna.

Ma chi dà una marcia in più all’opera è un quarto personaggio, la Gitana Azucena, quello a cui Verdi era non a caso maggiormente interessato: scriveva infatti a Cammmarano “Io vorrei due donne, la principale è la Gitana, carattere singolare e di cui farei il titolo del’opera. L’altra ne farei una comprimaria.”

Certo Azucena è il personaggio più insolito e stimolante, che si divide per tutta l’opera tra il ruolo di figlia assetata di vendetta e quello di madre amorosa di un figlio non suo. Questa ambiguità di fondo si trascina fino al terribile finale, quando avrà contemporaneamente la soddisfazione per il compimento della vendetta e la disperazione per la morte del figlio adottivo. 

Volendo paragonare Il Trovatore ad altre opere di Verdi dello stesso periodo può quindi sembrare che, Azucena a parte, ci sia stato un passo indietro verso la tradizione del melodramma romantico a numeri musicali chiusi e struttura simmetrica (quattro atti, otto scene).

Di certo i personaggi sono ricchi di umanità e Verdi approfondisce bene il loro profilo psicologico, però non c’è evoluzione: rimangono sempre uguali a sé stessi e tutto sembra sempre teatrale ed eccessivo, quindi alla fine poco credibile. Ognuno dei quattro atti ha un titolo (Il duello, La gitana, Il figlio della zingara e Il supplizio) in puro stile da romanzo d’appendice, ma non stupiamoci troppo: pare che sia stato lo stesso Verdi a spingere i librettisti in questa direzione, forse perché proprio questi erano i gusti dell’epoca e sappiamo che il maestro di Busseto era molto attento agli incassi dei suoi lavori.

 

PFM - Premiata Forneria Marconi e Antonella Ruggiero – Teatro Arcimboldi, Milano – 7 marzo 2014

 

Venerdì scorso invece di rientrare a casa per un meritato riposo dopo una settimana di lavoro ho deciso all’ultimo minuto di andare al Teatro degli Arcimboldi per il concerto della PFM con Antonella Ruggiero e devo dire che poche volte ho fatto una scelta così azzeccata.

 

La PFM è un icona del rock progressivo italiano fin dal 1971, uno dei pochissimi nostri gruppi rock ad avere avuto successo anche all’estero e l’unico ad essere mai entrato nella Top 100 della rivista Billboard.

Anche Antonella Ruggiero è in attività già dal 1975, prima con i Matia Bazar e poi con una carriera da solista, e non sono certo io a scoprirne le qualità vocali.

 

Il concerto è iniziato su un terreno comune agli artisti sul palco: Antonella Ruggiero si è infatti cimentata con alcune canzoni tratte da A.D. 2010 - La Buona Novella, ovvero la versione riarrangiata nel 2010 dalla PFM dell’omonimo album del 1970 di Fabrizio De André, e si è trovata particolarmente a suo agio, forse anche perché essendo genovese di nascita si era già confrontata col repertorio di Faber.

 

Dopo l’omaggio a De André, è partito uno scambio di repertorio affascinante, che ha visto da una parte Antonella Ruggiero cantare pezzi simbolo della PFM come Impressioni di settembre e La carrozza di Hans, dall’altra ha visto i musicisti della PFM accompagnare Antonella Ruggiero sia in canzoni della sua carriera solista come Il viaggio, sia in successi del periodo Matia Bazar come Ti sento.

 

A questo concerto ha partecipato anche il musicista e produttore Roberto Colombo, marito di Antonella Ruggiero, protagonista insieme alla PFM della storica tournèe di Fabrizio De André del ’78/’79: quindi non poteva mancare la canzone simbolo della collaborazione tra il gruppo rock e il cantautore genovese, cioè Il pescatore, che scatena sempre la gioia del pubblico.

 

Il teatro purtroppo non era pieno, nonostante alcune offerte speciali girassero in internet, ma fortunatamente il pubblico presente era molto caldo (d’altra parte la PFM a Milano gioca in casa e può contare su uno zoccolo duro di fans) e ha richiamato gli artisti sul palco per dei bis che da soli avrebbero giustificato il prezzo del biglietto.

 

In una vecchia intervista a “Il Monello” (i meno giovani si ricorderanno di questa rivista) negli anni ’70, i componenti della PFM avevano dichiarato che “Per quanto riguarda quello che vogliamo dal pubblico, suoniamo perché la gente che esce da un concerto dica: Be', per due ore siamo stati bene”.

 

Devo dire che questo vale oggi esattamente come valeva allora: è incredibile l’energia che il nucleo storico della PFM, cioè Franz Di Cioccio, Patrick Djivas e Franco Mussida, riesce ancora a sprigionare sul palco nonostante sommando le età di questi tre ragazzi terribili si superino ormai i 200 anni, ed è bello vedere ancora Franz Di Cioccio fare il “frontman” con la gioia e la voglia di fare un ragazzino. Quindi non aspettatevi delle mummie del rock: anzi, se ripeteranno questo concerto non perdetevelo. Anche se non siete amanti del rock progressivo o se Antonella Ruggiero non vi sta particolarmente simpatica è sempre bello vedere artisti di questa classe e questa abilità tecnica e vocale.

 

 

 

CONTINUA  IL  PERCORSO  A.P.E.S.

CONTINUA  ANCHE  QUESTA  SETTIMANA  LA  DEGUSTAZIONE DI  PIZZE  REGIONALI , QUESTA  SETTIMANA DEDICATA ALLA  PIZZA BERGAMASCA.   PREVISTA  PER  MERCOLEDI'  5 MARZO  UN'ALTRA  DELIZIOSA  SERATA  PRESSO  IL  RISTORANTE  " VECCHIA NAPOLI" DI  VIA  CHAVAZ 4, CHE  OSPITA  ANCORA PER  QUESTA  SETTIMANA L'INIZIATIVA  CON  PIZZAIOLI  CHE  CI  FARANNO  GUSTARE OTTIME  PIZZE  CON  PRODOTTI  TIPICI DELLA  VALLE  BERGAMASCA. RICORDIAMO  CHE  L'EVENTO  PROSEGUIRA'  A  VARIE  CADENZE  E  FINO  A  GIUGNO  IN ALTRI  RISTORANTI  DELLA  CITTA'  CHE  VI  SEGNALEREMO  DI VOLTA  IN  VOLTA.BON  APPETITO.

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LUCIA DI LAMMERMOOR – Teatro alla Scala, Milano – 1 / 28 febbraio 2014. 

Parliamo oggi di una delle pietre miliari del melodramma italiano, ovvero Lucia di Lammermoor, composta da Gaetano Donizetti nel 1835, all’apice della sua carriera. Il libretto dell’opera è liberamente ispirato a un romanzo di Sir Walter Scott, The Bride of Lammermoor, ambientato nella Scozia del diciassettesimo secolo e più precisamente durante la lotta tra i seguaci di Guglielmo III d’Orange e quelli di Giacomo II. 

Questo romanzo, prima che da Donizetti, è stato sfruttato da almeno altri quattro compositori per le loro opere teatrali. Questa cosa non deve sorprendere, perché gli operisti italiani consideravano Sir Walter Scott una fonte sicura di grandi intrecci melodrammatici e inoltre sapevano che nei suoi romanzi, largamente diffusi e apprezzati tra la borghesia che affollava anche i teatri, si trovavano tutti gli ingredienti necessari a venire incontro ai gusti dell’epoca: romanticismo, atmosfere gotiche e ambientazione storica, possibilmente in Inghilterra, il paese più “di moda”. 

Quindi una storia scritta da Sir Walter Scott era già una mezza garanzia di successo. Inoltre The Bride of Lammermoor è l’ennesima variazione del canovaccio di Romeo e Giulietta, ovvero una storia d’amore tra giovani appartenenti a famiglie rivali, che è sempre un buon punto di partenza per un grande dramma. 

Il librettista Salvatore Cammarano ha semplificato l’intreccio del romanzo, sacrificando i personaggi e le azioni secondarie per mantenere solo il nucleo della storia: Edgardo, caduto in disgrazia, è lontano e l’amata Lucia è obbligata dal fratello Enrico a sposare Arturo in un matrimonio di interesse. Lucia impazzisce, uccide il marito e muore, nella costernazione di Edgardo che si suicida trafiggendosi. 

Ma già in questa sintesi troviamo i due grandi elementi di novità del libretto rispetto alla trama del romanzo, che assumono grandissima importanza nell’economia dell’opera: la pazzia di Lucia, a cui Sir Walter Scott aveva solo accennato e che Donizetti e Cammarano trasformano nel punto focale del dramma, e il suicidio di Edgardo, che offre il destro agli autori per un finale inusuale per l’epoca, ovvero la cabaletta finale del tenore “Tu che a Dio spiegasti l’ali”, mentre era tradizione chiudere con un’aria importante della protagonista femminile. 

Dobbiamo essere grati a compositore e librettista per queste aggiunte: la scena della pazzia di Lucia e il finale affidato al tenore sono entrambi momenti di grande emozione che hanno dato un forte contribuito alla popolarità di Lucia di Lammermoor. 

Per il resto la struttura dell’opera è abbastanza tradizionale e convenzionale per l’epoca, ma un Donizetti in grande spolvero (non a caso questo è considerato tra i suoi capolavori) ha dato a questo lavoro una marcia in più, non solo con la scrittura vocale di alto livello legata alla tradizione del belcanto ma anche con le parti melodiche dedicate all’orchestra, che sottolinea l’azione in scena adattandosi a seconda delle necessità e introduce i numeri dei solisti anticipando al pubblico lo stato d’animo del personaggio. 

Il successo di Lucia di Lammermoor è stato immediato e internazionale: già nel 1839 Donizetti ne ha curato una versione in francese per un teatro di Parigi, operando anche delle variazioni al libretto. A riprova della popolarità di quest’opera possiamo ricordare che nel celeberrimo libro di Flaubert Madame Bovary vedendo a teatro Lucia si identifica completamente con la sua storia d’amore tragica e sfortunata: quindi, un omaggio da parte un’icona della letteratura romantica e borghese a una sua pari del teatro. 

Parlando in particolare di questo allestimento, devo dire che le produzioni del Metropolitan Opera House di New York raramente deludono, e questa non fa eccezione: il direttore Pier Giorgio Morandi e i cantanti hanno preso dei meritati applausi, mentre regia, scenografia e costumi si sono mantenuti una volta tanto nella tradizione e dopo tante modernizzazioni alcune delle quali di dubbio gusto la cosa non mi è dispiaciuta. In sintesi, uno spettacolo molto valido: speriamo quindi di vedere in futuro altri allestimenti curati dal Metropolitan.

 

DEE DEE BRIDGEWATER–Blue Note Milano 19- 22 febbraio 2014

 

E’ tornata al Blue Note di Milano Dee Dee Bridgewater, una tra le più affermate cantanti di jazz in attività, che non ha grande bisogno di presentazioni. Infatti parlano a suo favore una carriera che è iniziata a metà degli anni settanta e non accenna a concludersi ed i Grammy Awards vinti, tra cui citerei almeno l’ultimo in ordine di tempo: il disco del 2010 “Eleanora Fagan (1915-1959): to Billie with love from Dee Dee Bridgewater” dedicato alla grande Billie Holiday e vincitore come migliore Jazz Vocal Album. 

Nonostante i prezzi non certo popolari il pubblico milanese ha risposto molto bene riempiendo la sala per tutte le quattro serate e mostrandosi caldo e pronto a partecipare, mentre Dee Dee ha offerto uno spettacolo degno della sua meritata fama incantando i presenti colla sua voce, ben supportata da un classico ed affiatatissimo quartetto: Edsel Gomez al pianoforte, Michael Bowie al contrabbasso, Jerome Jennings alla batteria e Theo Croker alla tromba. 

Se c’è un posto giusto per ascoltare questo tipo di musica è proprio un club come il Blue Note, possibilmente vicini al palco per godersi al meglio lo spettacolo. Per una sera, grazie alla magia degli artisti e del luogo, chi ha assistito ai concerti si è sentito in un piccolo angolo di New York trapiantato temporaneamente a Milano. 

Il Jazz Club Blue Note del Greenwich Village, New York City, ha infatti aperto tre succursali: due in Giappone e una, per nostra fortuna, a Milano, dandoci l’opportunità di respirare un po’di atmosfera degli States anche qui da noi. 

Tornando al concerto, dobbiamo ringraziare Dee Dee Bridgewater per le sue bellissime cover di Billie Holiday e di altri mostri sacri del jazz, ma anche per aver lasciato il giusto spazio ai suoi musicisti, in particolare alla tromba, come si usa fare in questo tipo di occasioni. 

In una vecchia sit-com degli anni ’80 – i Robinson, o se preferite The Cosby Show – si diceva che quando un musicista jazz parte con un assolo i suoi compagni possono scendere dal palco, andare a suonare in un altro club e tornare dopo un paio d’ore per riprendere esattamente da dove avevano interrotto. Ovviamente si tratta di un’esagerazione, ma di sicuro solo nel jazz potrete vedere una cantante come Dee Dee Bridgewater preparsi un tè sul palco mentre il combo continua a suonare. 

Decisamente niente da dire sulla serata: Dee Dee e i suoi musicisti hanno messo in campo un gran talento, classe, energia ma anche tanta anima e il pubblico ha dimostrato di apprezzare molto. Forse il jazz è una musica di nicchia ma anche se non siete degli appassionati è sempre bello ascoltare artisti che, oltre a una tecnica sopraffina, mettono il cuore in quello che fanno. Come dicono i francesi, chapeau: sono persone con una marcia in più. 

Unica nota negativa, il fatto che ogni bel gioco dura poco: la scelta di effettuare due spettacoli a sera (uno alle 21 ed uno alle 23) limita la durata dei concerti e questo lascia un po’delusi, perché l’atmosfera è magica e quando sei riuscito a entrarci e dimenticare i tuoi problemi è già ora di tornare a casa.

Certo lo spazio è limitato e le richieste tante, quindi i due turni danno la possibilità a più gente di assistere a un concerto di altissimo livello con musicisti di gran nome, però pur capendo le esigenze degli organizzatori e del locale 50 Euro per poco meno di un ora e mezza di musica mi sembrano un po’troppi.

 

                         LE VIE DELLA PIZZA.

Come anticapotovi parte il grande progetto ideato dalla Presidentessa Sig. Bandera , con la collaboratrice Monoca, dell’associazione APES (Associazione Pizzaioli e Similari), per portare a conoscenza il modus operanti di fare la pizza. Un’iniziativa nata anche per ,andare contro i contraffatti marchi stranieri, che stanno invadendo in tutti i settori i nostri prodotti artigianali e non. L’idea del progetto prevede la degustazione in vari ristoranti, due per ogni mese, fino a Giugno, in ogni ristorante una degustazione di pizza fatta con prodotti tipici delle varie regioni italiane, quindi ogni serata sarà a tema di ogni singola regione. Presente la stampa e naturalmente i cuochi pizzaioli dell’A.P.E.S che hanno avuto il pregio di far conoscere la pizza nel mondo, o meglio il come fare la pizza nel mondo, attraverso l’operato di due grandi personaggi, ormai scomparsi tra cui il Presidente e marito della Sig.Bandera Antonio Primiceri, che negli anni 80 esportava nel mondo il come fare la pizza. Si è iniziato quindi mercoledì scorso la prima serata al ristorante pizzeria ,” Vecchia Napoli” di via Chavaz 4 Milano. Si proseguirà il p.v. 4 Marzo di cui non vi anticipiamo altro. A brevissimo come sempre disponibile il nostro consueto video esplicativo della grande manifestazione, del progetto e della serata con il primo ristorante e con la prima regione la Puglia.

 

LA TRAVIATA - Teatro alla Scala, Milano – 7 dicembre 2013 / 3 gennaio 2014

 

La Stagione 2013/2014 del Teatro alla Scala si è aperta con un grande classico: La Traviata di Giuseppe Verdi, diretta da Daniele Gatti, con la regia e le scene di Dmitri Tcherniakov e i costumi di Elena Zaytseva.

L’opera non ha certo bisogno di presentazioni: insieme a Il Trovatore e a Rigoletto fa parte della cosiddetta Trilogia Popolare di Verdi e dopo un debutto sfortunato (secondo Verdi a causa degli interpreti, che a suo parere non erano all’altezza) al Teatro La Fenice di Venezia nel 1853, cominciò a riscuotere il meritato successo già l’anno successivo al Teatro San Benedetto, sempre a Venezia. A partire da questo allestimento La traviata ha ottenuto gli unanimi consensi della critica e del pubblico mondiale.

Il libretto di Francesco Maria Piave si basa su La dama delle Camelie di Alexandre Dumas figlio, un adattamento per il teatro del suo omonimo romanzo, ispirato ad un personaggio realmente esistito: Alphonsine Plessis (il cui “nome d’arte” era Marie Duplessis), la più famosa cortigiana della Parigi di Luigi Filippo, la cui storia è praticamente identica a quella della protagonista del romanzo, inclusa la fine: anche Alphonsine morì giovanissima, appena ventitreenne, di tisi.

In realtà Alexandre Dumas conosceva molto bene la giovane cocotte e la sua storia: era stato infatti il suo amante tra il 1844 e il 1845, e il periodo trascorso dai due giovani nella campagna dell'Ile de France ha sicuramente fornito materia prima per il romanzo.

Quindi, un copione di ferro a disposizione del Maestro di Busseto e del suo librettista anche se, data la scabrosità dell’argomento, per passare il vaglio della censura si videro quasi costretti a spostare l’ambientazione al 1700, nella Parigi di Richelieu. Verdi dovette quindi aspettare circa trent’anni per vedere realizzato il suo desiderio di dare all’opera la stessa ambientazione contemporanea del romanzo di Dumas.

Infatti La Traviata è una delle prime opere di soggetto realistico e contemporaneo del melodramma italiano e, come il romanzo da cui prende spunto, ci parla della vita mondana dei borghesi dell’epoca, evidenziandone e denunciandone l’ipocrita doppia morale, nonostante alcuni spigoli riguardo ad esempio il tema della prostituzione siano stati smussati sia da Dumas nel passaggio dal romanzo alla pièce teatrale sia da Verdi e Piave nella stesura del libretto.L’opera ruota intorno a Violetta, la Traviata: una cortigiana che, dopo una vita dedicata al piacere, trova in Alfredo un uomo che la conquista non con il denaro ma con l’amore e la dedizione. Sarà invece Violetta a rovinarsi economicamente prima e sacrificare il suo amore poi per Alfredo, in una sorta di contrappasso. Alfredo scoprirà la verità sul sacrificio di Violetta e sul suo eterno amore troppo tardi, giusto in tempo per rivederla un’ultima volta sul letto di morte. Quindi gli elementi del melodramma romantico ci sono tutti, e un Verdi in piena forma li sfrutta da par suo. L’allestimento affidato a Daniele Gatti rende a mio parere giustizia al genio di Verdi, Piave e Dumas dal punto di vista della musica e del canto. Personalmente ho trovato convincenti sia Diana Damrau nella parte di Violetta, sia Piotr Beczala e Željko Lučić nelle parti di Alfredo e Giorgio Germont.Devo dire però che ho trovato la regia e le scene di Dmitri Tcherniakov poco convincenti. Personalmente preferisco che l’opera sia allestita come è stata pensata dall’autore, ma ritengo che operazioni di attualizzazione se fatte nel modo giusto possono essere altrettanto valide. Nel caso specifico invece ho l’impressione che il lavoro di Tcherniakov ci abbia dato uno spettacolo per così dire né carne né pesce, dove i diversi elementi non si combinano tra loro: scenografia stile ‘800, costumi moderni anche se non riferibili a un’epoca in particolare, scene di vita attuale. Il regista ha dichiarato: “Non mi interessava evidenziare convenienze sociali e pregiudizi morali della Traviata, perché ormai estranei al pubblico contemporaneo. Ho voluto invece uno spettacolo da camera, un teatro psicologico in interni fra i personaggi. Non importa in che epoca: la contemporaneità è una condizione.” e anche “Non mi interessa il tempo storico originale, spesso non lo mantengo ma scelgo l’ambientazione che mi permette di sentire l’opera nel modo più intenso. Non mi preoccupo neppure di stile né eleganza: la passione non è bella ma vera, e non devo vergognarmi di mostrarla. I miei eroi mi coinvolgono talmente che l’opera quasi non mi basta, vorrei seguirli anche oltre.”Con tutto il rispetto per le idee di Tcherniakov, penso che Dumas e Verdi abbiano però fortemente voluto, come dicevamo poc’anzi, parlare delle convenzioni sociali e dei pregiudizi della loro epoca, e che la “professione” esercitata da Violetta abbia una certa importanza nel racconto.Quindi mi ha fatto sorridere vedere Alfredo, borghese dell’800, cucinare come un ragazzo qualsiasi o portare le pastarelle a Violetta sul letto di morte. Anche i costumi non mi sono parsi granché, forse perché non intonati alla scenografia, con una punta per così dire di eccellenza nella parrucca bionda indossata da Violetta alla festa in casa di Flora nel secondo atto.Per la prossima volta suggerirei di riprendere la regia di Liliana Cavani con le scene di Dante Ferretti e i costumi di Gabriella Pescucci: prodotto autarchico ma decisamente migliore, fatto da artisti che tutto il mondo ci invidia.

 

                        LE VIE DELLA PIZZA.

Come anticapotovi parte il grande progetto ideato dalla Presidentessa Sig. Bandera , con la collaboratrice Monoca, dell’associazione APES (Associazione Pizzaioli e Similari), per portare a conoscenza il modus operanti di fare la pizza. Un’iniziativa nata anche per ,andare contro i contraffatti marchi stranieri, che stanno invadendo in tutti i settori i nostri prodotti artigianali e non. L’idea del progetto prevede la degustazione in vari ristoranti, due per ogni mese, fino a Giugno, in ogni ristorante una degustazione di pizza fatta con prodotti tipici delle varie regioni italiane, quindi ogni serata sarà a tema di ogni singola regione. Presente la stampa e naturalmente i cuochi pizzaioli dell’A.P.E.S che hanno avuto il pregio di far conoscere la pizza nel mondo, o meglio il come fare la pizza nel mondo, attraverso l’operato di due grandi personaggi, ormai scomparsi tra cui il Presidente e marito della Sig.Bandera Antonio Primiceri, che negli anni 80 esportava nel mondo il come fare la pizza. Si è iniziato quindi mercoledì scorso la prima serata al ristorante pizzeria ,” Vecchia Napoli” di via Chavaz 4 Milano. Si proseguirà il p.v. 4 Marzo di cui non vi anticipiamo altro. A brevissimo come sempre disponibile il nostro consueto video esplicativo della grande manifestazione, del progetto e della serata con il primo ristorante e con la prima regione la Puglia.

 

SERATA RATMANSKY - Teatro alla Scala, Milano – 19 dicembre 2013 / 16 gennaio 2014

 

La Stagione di Balletto 2013/2014 del Teatro alla Scala si è aperta con una nuova produzione dedicata al ballerino e coreografo russo Alexei Ratmansky, considerato uno dei talenti emergenti della danza (secondo il Financial Times il miglior coreografo russo degli ultimi 50 anni) e fortemente ammirato dal Direttore del Corpo di Ballo della Scala Machar Vaziev, che lo ha invitato a Milano. Lo spettacolo è composto da tre coreografie completamente indipendenti ovvero, in ordine di esecuzione:

 

• Russian Seasons su musiche di Leonid Desyatnikov

(creata per il New York City Ballet nel 2006 e finora inedita per l’Italia)

• Concerto DSCH su musiche di Dmitrij Šostakovič

(creata per il New York City Ballet nel 2008 e già rappresentata al Teatro alla Scala nel maggio 2012)

• Opera su musiche di Leonid Desyatnikov

(una nuova produzione realizzata espressamente per il Teatro alla Scala in omaggio alla sua tradizione operistica, che dovrebbe rappresentare il cuore della serata)

 

Si tratta quindi di due coreografie già ampiamente sperimentate, probabilmente le più note e apprezzate tra i lavori di Ratmansky, e di una produzione completamente nuova. Pare che questa nuova produzione abbia causato qualche problema: pochi giorni prima del debutto le agenzie di stampa hanno ricevuto un comunicato piuttosto inusuale firmato dalla rappresentanza sindacale del Corpo di Ballo del Teatro alla Scala: “a un giorno dalla prova generale il montaggio della coreografia non è ancora concluso. Mentre da un lato, infatti, mancano ancora delle parti da creare dall’altro si è arrivati a malapena ad appiccicare i passi in qualche modo”. Il comunicato chiudeva definendo come “miracolosa” l’eventualità che il risultato finale fosse soddisfacente.

Alla fine però la professionalità e la bravura del coreografo e dei ballerini hanno fatto il miracolo e lo spettacolo è stato degno del nome del Teatro alla Scala. La serata è stata aperta da Russian Seasons, la prima coreografia ideata da Ratmansky per il New York City Ballet su una partitura già esistente di Leonid Desyatnikov che ripropone la struttura de Le Quattro Stagioni di Vivaldi: quattro concerti, uno per ognuna delle quattro stagioni, e dodici movimenti, che parlano del trascorrere di un anno scandito dalle date del calendario russo ortodosso.

 

La partitura di Desyatnikov per orchestra d’archi, violino solista e soprano include però parti cantate su testi ispirati a canzoni popolari tradizionali russe che parlano di vita quotidiana: matrimoni di convenienza, soldati partiti per la guerra, canti nuziali. Questo offre il destro a Ratmansky per realizzare quello che lui stesso ha definito una specie di “fotografia istantanea tratta dalla vita” per ogni sezione del balletto.Le coppie di ballerini sono sei, ad ognuna è assegnato un colore ed un episodio (anche se alla fine la “coppia gialla” si trasforma nella “coppia bianca” quindi i colori diventano sette), tutte insieme formano in modo evidente una comunità. Ratmansky disse a proposito di questo lavoro “Voglio essere semplice, e serio.Commuovere con semplicità.” e devo dargli ragione: il pubblico, forse all’inizio un po’disorientato, riesce però presto ad emozionarsi alle vicende dei ballerini e ad apprezzare il balletto. Tutt’altra musica (nel senso anche letterale del termine) per Concerto DSCH, che usa la partitura del Secondo Concerto per pianoforte e orchestra di Dmitrij Šostakovič. Infatti le lettere DSCH rappresentano sia le iniziali di Šostakovič nella traslitterazione dal Cirillico in lingua Tedesca sia le note che compongono il “motivo personale” del compositore secondo il sistema tedesco (re, mi bemolle, do, si).

Pare che Machar Vaziev abbia chiesto esplicitamente a Ratmansky di portare Concerto DSCH a Milano nel 2012, e dobbiamo ringraziarlo per questo. Ratmansky ha dichiarato a proposito della musica di Šostakovič “La sento molto vicina. Dal momento in cui l’ho ascoltata per la prima volta ho sempre voluto coreografarla. Sembra che stia parlando dell’anima Russa intrappolata in nuovi tempi difficili.” D’altra parte la musica di Šostakovič ha generosamente ricambiato il coreografo per questo amore: Ratmansky è stato nominato direttore artistico del Balletto del Bol’šoj anche grazie all’allestimento de Il limpido ruscello, mentre con Concerto DSCH ha conquistato pubblico e critica negli Stati Uniti prima e nel mondo poi. Concerto DSCH è oggi una delle coreografie più richieste grazie alla sua carica di ottimismo e di energia ed è sempre un piacere vederla, specialmente se i protagonisti sono Svetlana Zacharova e Carlo di Lanno, ben supportati dal trio composto da Stefania Ballone, Antonino Sutera e Federico Fresi.Il gran finale è stato invece affidato, come abbiamo già visto, a una prima assoluta sia musicale e che coreografica: Opera. Se devo essere sincero è la parte della serata che mi ha convinto di meno, forse la grande montagna non ha partorito il piccolo topolino della favola ma a mio parere il risultato non è all’altezza dei mezzi impiegati. Ratmansky ha dichiarato che il suo balletto è una meditazione su com’era lo spettacolo barocco, una riflessione, una fantasia sul tema. Sono stati presi testi di Metastasio e di Goldoni per costruire uno spettacolo che lo stesso autore ha definito come non narrativo, cioè senza una storia o una linea narrativa e con la danza trattata come una impostazione astratta.Non si è certo lesinato sui mezzi: per gli effetti scenografici è stata mobilitata la video designer Wendall Harrington, per i costumi Colleen Awood (che ha in curriculum dieci nomination e tre Oscar vinti), per la musica Desyatnikov con una partitura scritta apposta per l’occasione, per la danza l’étoile Roberto Bolle, attesissimo e molto applaudito, specialmente dalle signore presenti in sala – e non mi sento proprio di dargli torto.Opera è apprezzabile esteticamente e tecnicamente però, nonostante questo gran spiegamento di mezzi, purtroppo almeno a mio parere decisamente senz’anima. E’ sicuramente vero che questa era esattamente l’intenzione dell’autore, che i critici russi hanno definito un coreografo postmoderno. Prendendo a prestito le parole dello stesso Ratmansky: “La mia impressione è che il postmoderno debba essere freddo, un gioco intellettuale di strumenti espressivi. Nel mio lavoro invece c’è un approccio più sincero ed emotivo. Prendiamo un lavoro come Russian Seasons, per esempio, lì davvero cerco di parlare col cuore, prima che con l’intelletto.”

Quindi a noi inguaribili romantici affezionati ai balletti tradizionali, con una storia da raccontare, non resta che augurarci che il talentuoso Ratmansky torni a parlarci col cuore.

 

CONCERTO DI NATALE 2013 – Orchestra e Coro del Teatro alla Scala, Milano – 21 dicembre 2013

 

Quest’anno la scelta per il Concerto di Natale dell’ Orchestra e Coro del Teatro alla Scala è caduta sull’oratorio Elias (op. 70) di Felix Mendelssohn Bartholdy, diretto da Daniel Harding. 

Elias è il secondo ed ultimo oratorio composto da Mendelssohn e uno dei suoi ultimi capolavori. Il compositore è infatti scomparso prematuramente nel 1847, a soli 38 anni, in seguito a dei colpi apoplettici. 

L’oratorio Elias è stato eseguito con la direzione dello stesso Mendelssohn per la prima volta il 26 agosto 1846 al festival di Birmingham, in Inghilterra, utilizzando la traduzione inglese del libretto ed era la parte centrale di un trittico di oratori che prevedeva l’esecuzione il giorno precedente del Die Schöpfung di Haydn e il giorno successivo del Messiah di Händel. 

Daniel Harding ha invece optato a mio parere giustamente per il libretto originale in lingua tedesca. Come sappiamo, l’oratorio è una composizione che narra fatti di ispirazione religiosa, ma senza rappresentazione scenica. In pratica, nella sua forma più compiuta e cioè a partire dal XVIII secolo e in particolare con l’entrata in scena di Georg Friedrich Händel, l’oratorio si avvicina molto nel carattere e nello stile al melodramma moderno: semplificando un poco, gli oratori di grandi maestri come Händel, Bach e Mendelssohn potrebbero quasi essere definiti delle opere liriche d’argomento religioso ma senza costumi, scenografia e recitazione – solo musica e canto. 

Elias narra di alcuni episodi nella vita del profeta Elia, tratti dal Primo e dal Secondo Libro dei Re dell’Antico testamento. Pare che Mendelssohn, nato da famiglia ebrea ma battezzato protestante, cresciuto accettando con profonda convinzione la nuova religione ma senza mai perdere le proprie radici, abbia insistito con il librettista e in particolar modo con l’amico Julius Schubring, pastore protestante e teologo che collaborò come revisore del testo, affinché la storia del profeta fosse rappresentata in modo fedele al testo biblico e senza revisionismo. Nonostante ciò si può ancora vedere in particolar modo nel finale lo sforzo fatto da Schubring per rappresentare la figura di Elia come quella di un precursore di Giovanni Battista e di Cristo. 

D’altra parte secondo alcuni critici il finale potrebbe dare un messaggio che esula da quello puramente musicale: solo il Messia può liberarci dalla maledizione del peccato. Forse non è da sottovalutare il fatto che il giorno successivo alla prima di Elias sarebbe stato eseguito il Messiah di Händel e che quindi Mendelssohn abbia pensato anche solo a livello inconscio a creare un punto di contatto tra le due opere. 

Mendelssohn intendeva la musica come uno strumento di edificazione morale e sociale, e voleva rivolgersi al grande pubblico con una musica da un lato ancorata alle tradizioni di Bach e di Händel (dobbiamo ricordare che Mendelssohn fece molto per riportare alla luce la musica di Bach, anche eseguendola personalmente) e dall’altro orientata a “purificare e rifondare il gusto del pubblico”, rinnovando la tradizione dell’oratorio e rendendolo uno strumento adatto a incidere sugli animi degli ascoltatori, contribuendo a renderne più solida la morale e la fede.

A parte queste considerazioni di carattere filosofico e religioso, quello che ci resta è sicuramente un piccolo capolavoro della musica ispirato da un lato ai grandi maestri del periodo barocco Bach e Händel, dall’altro con chiari elementi romantici nel lirismo e nell’uso dell’orchestra e del coro, ma anche nel gusto per le numerose scene drammatiche, tra le quali segnalerei come culmine il confronto tra il profeta Elia e i sacerdoti del dio Baal, con la dura sconfitta subita da questi ultimi e la vendetta di Elia. 

L’Elias è stato accolto con grande favore già alla sua uscita, nonostante alcune aspre critiche da parte di personalità come Bernard Shaw, che trovò il lavoro convenzionale e privo di originalità, o Charles Rosen, che pur ritenendo i suoi oratori i migliori del XIX secolo definì Mendelssohn come “l’inventore del kitsch religioso nella musica”. 

Si tratta comunque di un’opera imponente, che prevede l’utilizzo dell’orchestra sinfonica a organico completo, di un grande coro e di quattro voci soliste (soprano, mezzosoprano, tenore e baritono).

Devo dire che l’Orchestra e il Coro del Teatro alla Scala insieme alle voci soliste, tutti ben diretti dal Maestro Harding, hanno dato il loro ottimo contributo a rendere la serata piacevole agli spettatori, che li hanno ringraziati con un caloroso e lungo applauso.

 

LO SCHIACCIANOCI – Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala – Piccolo Teatro Strehler, Milano – 13 / 22 dicembre 2013

 

Già da alcuni anni Lo Schiaccianoci interpretato dalla Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala è un appuntamento fisso del dicembre Milanese. 

Si tratta di un balletto che non ha bisogno di molte presentazioni: con gli altri balletti nati dalla collaborazione di Čajkovskij con i grandi coreografi Marius Petipa e Lev Ivanov (Il Lago dei Cigni e La Bella Addormentata) ha infatti segnato la nascita della cosiddetta scuola russa. 

La storia, che si ispira a un racconto di E.T.A. Hoffmann (Lo Schiaccianoci e il Re dei topi) in una versione riveduta e corretta da Alexandre Dumas padre, è una fiaba universalmente nota e saccheggiata anche dal cinema, in particolare quello d’animazione; la musica di Čajkovskij è celeberrima, sia nella versione di suite per concerto che nella versione per il balletto; gli allestimenti da parte dei teatri di tutto il mondo innumerevoli, specialmente nel periodo di Natale. 

In aggiunta a tutto questo, molte scuole di ballo scelgono Lo Schiaccianoci per far esibire i loro giovani allievi perché da un lato le scene corali del primo atto, dall’altro la varietà delle danze unita al gran numero di personaggi in scena nel secondo atto (dai divertissement fino al gran passo a due) consentono di dare spazio a molti ballerini che hanno così la possibilità di mostrare il loro potenziale nella speranza che si tratti dell’avvio di una carriera da professionista. 

In particolare per questo allestimento Frédéric Olivieri, direttore della Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala, ha rivisto la coreografia classica di Ivanov per meglio adattarla alle possibilità dei suoi allievi. 

Quindi perché passare ancora una volta una serata in compagnia di Clara e del suo Schiaccianoci? 

Innanzitutto perché è uno spettacolo di grande magia, per le orecchie, per gli occhi e per il cuore. Come dice giustamente Frédéric Olivieri nella presentazione dello spettacolo “una storia così delicata e magica ci riporta subito al calore e ai sentimenti di quella serata fantastica che tutti, nella nostra infanzia, abbiamo vissuto con tanta trepidazione”. 

In secondo luogo perché a volte è bello, e in particolar modo sotto Natale, ritornare un po’ indietro nel tempo e farsi coinvolgere da questa favola dai colori sgargianti dove forte è il contrasto tra la realtà degli adulti e il mondo dei sogni dei bambini. 

Ma anche perché a questo tipo di spettacoli si respira un’aria un po’diversa dal solito: tra il pubblico ci sono numerosi bambini e ragazzi delle scuole di ballo della città (che godono giustamente di sconti sul prezzo del biglietto), quindi l’atmosfera è meno formale e più divertita, ed aiuta a godersi meglio la favola rappresentata sul palcoscenico. 

Perciò se avete dei figli (specialmente se sono iscritti a una scuola di ballo) portateli: anche loro rimarranno incantati dalla Bambola Meccanica, dal combattimento tra lo Schiaccianoci e il Re dei Topi, dalle danze Spagnole, Arabe, Cinesi e Russe o forse sogneranno di poter interpretare un giorno il passo a due della Fata Confetto e del suo Principe. 

Se invece siete adulti non preoccupatevi: l’età degli interpreti non diminuisce la qualità dello spettacolo. Forse non tutti i ragazzi dell’Accademia hanno già la perfezione tecnica o la potenza atletica dei loro futuri colleghi del Corpo di Ballo della Scala, ma il talento e la voglia di fare non mancano. L’impegno è massimo anche da parte dei più piccoli e dove manca un po’ di esperienza di sicuro arriva il cuore. Inoltre, con un po’ di fortuna, quando tra qualche anno si parlerà di una nuova etoile potrete anche avere il piacere di poter dire “io l’ho vista che ancora era una ragazzina”. 

Quindi speriamo che l’iniziativa prosegua anche per i prossimi anni, e per gli appassionati ricordiamo che dal 7 all’11 maggio 2014 è in programma (sempre grazie all’ospitalità del Piccolo Teatro Strehler) lo spettacolo di fine anno della Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala: la prossima  volta non perdetelo!

 

                           -TEATRO ALLA SCALA  MILANO –

 

                           STAGIONE 2013/2014 - Opera

 

Pochi giorni fa si è aperta con La Traviata la nuova stagione di Opera del Teatro alla Scala di Milano. I titoli in cartellone sono, in ordine di programmazione:

• La traviata di Giuseppe Verdi

• Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni

• Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti

• Il Trovatore di Giuseppe Verdi

• La Sposa dello Zar di Nikolaj Rimskij-Korsakov

• Les Troyens di Hector Berlioz

• Elektra di Richard Strauss

• Così fan tutte di Wolfgang Amadeus Mozart

• Le Comte Ory di Gioachino Rossini

• Simon Boccanegra di Giuseppe Verdi

Si è quindi chiusa la stagione dedicata quasi completamente a Verdi e Wagner in occasione del bicentenario della loro nascita e ci troviamo ora di fronte a una programmazione più varia ed equilibrata.

Cercheremo di coprire con le nostre recensioni tutta la stagione, ma cosa consigliare a qualcuno che voglia trascorrere una serata in compagnia di buona musica in un luogo di grande fascino?

La scelta più ovvia potrebbe essere La Traviata oppure Il Trovatore, due opere che fanno parte insieme a Rigoletto della cosiddetta “trilogia popolare” verdiana e che non hanno certo bisogno di presentazioni.

Personalmente punterei però sulla Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti prodotta dal Metropolitan Opera House di New York e diretta da PierGiorgio Morandi, una pietra miliare del melodramma romantico italiano, amata da tutti gli appassionati dell’opera. Edgardo, caduto in disgrazia, è lontano e l’amata Lucia è obbligata a sposare Arturo. Lucia impazzisce, uccide il marito e muore, nella costernazione di Edgardo che si suicida trafiggendosi. La scena della pazzia di Lucia e la cabaletta finale del tenore “Tu che a Dio spiegasti l’ali” valgono forse da soli il prezzo del biglietto.

Per chi invece preferisce il lieto fine, come me, quest’anno segnalerei il ritorno di Così fan tutte, l’ultima opera in lingua italiana di Mozart, diretta nell’occasione da Daniel Barenboim: siccome la fedeltà femminile non esiste, le belle sorelle Fiordiligi e Dorabella tradiscono Guglielmo e Ferrando lasciandosi sedurre una dall’amante dell’altra. Su questa storia di scambio di coppia, per l’epoca assolutamente inconsueta e quasi priva di precedenti letterari (a parte un canto dell’Orlando Furioso di Ariosto a cui l’opera in parte si ispira), Mozart e il fido librettista Da Ponte costruiscono un congegno teatrale e musicale perfetto, quasi un meccanismo ad orologeria che affascina lo spettatore .

Sempre per gli amanti del lieto fine è da scoprire Le Compte Ory di Rossini, che stavolta ci narra con la sua consueta verve di una specie di Don Giovanni dell’epoca delle Crociate, che passa tutto il suo tempo correndo dietro alle sottane delle dame e delle pellegrine, fra travestimenti ed inganni, peraltro senza ottenere risultati pari agli sforzi profusi. Come al solito la partitura di Rossini ed il libretto sprizzano energia e ironia, e mettono in risalto la bravura dei cantanti. L’opera non ha avuto molta fortuna al suo debutto in Italia ma a Parigi rimase in cartellone per vent’anni consecutivi ed è stata ora pienamente rivalutata dalla critica.

Sono personalmente incuriosito anche dall’inconsueto abbinamento della Cavalleria Rusticana non ai Pagliacci (suoi compagni naturali ormai da decenni) bensì a due balletti: Le Spectre de la Rose e La Rose Malade, per le coreografie rispettivamente di Michail Fokin e Roland Petit e la direzione di Daniel Harding. Sembra che l’intenzione sia di avvicinare gli amanti del balletto all’opera e viceversa: di certo i nomi degli interpreti sembrano una garanzia.

A questo punto non mi resta che augurare a tutti voi buon divertimento!

ARLECCHINO SERVITORE DI DUE PADRONI – Piccolo Teatro Grassi, Milano – 3 / 22 dicembre 2013

 

Arlecchino servitore di due padroni è la bandiera del Piccolo Teatro di Milano, uno spettacolo unico in Italia che porta il nome di Strehler e del Piccolo Teatro in giro per tutto il mondo dal 1947.

 Come forse saprete, il Piccolo Teatro è stato il primo teatro stabile d’Italia. Nel programma della stagione di fondazione si legge: « Non dunque teatro sperimentale, nemmeno teatro d'eccezione, chiuso in una cerchia d'iniziati. Invece, teatro d'arte, teatro per tutti. ».

 Questa definizione si adatta benissimo al lavoro di Carlo Goldoni, uno dei grandi padri del teatro italiano e mondiale, che viveva nel teatro e per il teatro, scrivendo in funzione degli attori della sua compagnia e pensando sia alla messa in scena, che avrebbe curato personalmente, sia a riempire la sala di pubblico.

 Uno dei suoi critici contemporanei, Carlo Gozzi, scrisse infatti: "ha fatto sovente de' veri nobili lo specchio dell'iniquità e il ridicolo; e della vera plebe l'esempio della virtù e il serio in confronto, in parecchie delle sue commedie" e anche "io sospetto (e forse troppo maliziosamente) ch'egli abbia ciò fatto per guadagnarsi l'animo del minuto popolo, sempre sdegnoso col necessario giogo della subordinazione".

 Ma Goldoni non si limitava certo a strizzare l’occhio al pubblico borghese sbeffeggiando i potenti: aveva invece ben capito la necessità di una “riforma” del teatro che superasse i limiti sia della commedia erudita del quattro-cinquecento, destinata a un pubblico colto, sia della Commedia dell’Arte, i cui personaggi mascherati avevano cominciato ad invadere anche le tragedie con inserimenti comici di dubbio gusto.

 Goldoni voleva invece un teatro realistico, quindi vicino alla vita vera, con attori senza maschere e con un testo codificato, secondo la lezione di altri grandi teatranti come Molière che erano partiti sì dalla Commedia dell’Arte per arrivare però a risultati molto più moderni. Ricordiamoci che nelle sue memorie Goldoni scrisse: «Le due guide alla vita, io le ho studiate sui miei due libri: Mondo e Teatro »: quindi il teatro deve essere per l’autore veneziano indissolubilmente legato alla realtà.

 Nella sua commedia “Il teatro comico”, considerata un po’il manifesto della sua “riforma”, Goldoni rappresenta infatti degli attori alle prese con la messa in scena di uno spettacolo e i conseguenti contrasti tra due scuole di pensiero: la Commedia dell’Arte da una parte e la sua nuova commedia “riformata”, di gusto più europeo, dall’altra.

 Quindi perché vedere l’Arlecchino servitore di due padroni? Innanzitutto per il suo valore storico: si tratta infatti di uno dei primi spettacoli di Commedia dell’Arte a passare gradualmente da un canovaccio da usare come base per l’improvvisazione ad un testo codificato, come voleva la “riforma” di Goldoni.

 Ma si può anche apprezzare la rilettura filologica di Giorgio Strehler, che ha furbescamente trasformato il personaggio principale di Truffaldino (un nome, un programma) in Arlecchino per esigenze di cassetta, ma che ha anche avuto il merito di farci riscoprire e amare Goldoni dopo un periodo in cui l’autore veneziano non aveva goduto di grande fortuna.

 Oppure potrete restare affascinati dalla scrittura di Goldoni: la sua lingua, che cambia secondo la classe sociale del personaggio, è influenzata dal veneziano e da altri dialetti del nord Italia, ed è quella del mondo borghese, molto lontana dalla tradizione classicistica toscana e dalla sua purezza e più vicina a noi.

 Inoltre avrete l’occasione di tornare un po’ bambini e farvi incantare dalle acrobazie sul palco di Arlecchino e dei suoi compagni d’avventura, e godervi una commedia degli equivoci che ha ormai più di 250 anni ma non li dimostra.

 Infine avrete l’occasione di ammirare una ottima compagnia di attori bravi e affiatati, capitanati dal grande interprete storico di Arlecchino Ferruccio Soleri o dal suo degnissimo sostituto Enrico Bonavera, che tengono alta la bandiera della scuola del Piccolo Teatro di Milano.

 

L’HISTOIRE DE MANON – Teatro alla Scala, Milano – 7 / 15 novembre 2013.

 

La stagione 2012/2013 del Teatro alla Scala si chiude con L’histoire de Manon, un balletto neoclassico (presentato per la prima volta dal Royal Ballet di Londra nel 1974) con la coreografia di Kenneth MacMillan ripresa per questo allestimento da Karl Burnett.

 

Il balletto si basa sulla Histoire du Chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut dell’abate Prévost, che dalla sua uscita non ha mai smesso di ispirare uomini di teatro e musicisti di gran valore come Daniel Auber ma soprattutto Jules Massenet e Giacomo Puccini.

 

Certo il soggetto è molto interessante: Manon è sinceramente innamorata di Des Grieux, ma non vuole o non sa resistere alla sua passione per il lusso ed al piacere, ed alla fine trascina con sé il suo innamorato, che per procurarsi il denaro necessario a far felice Manon butta consapevolmente a mare i suoi onesti principi e accetta di barare al gioco. Mal gliene incoglierà, ma come dargli torto: tanto Manon è frivola, dispettosa, sensuale, arrogante, una vera cortigiana quando è in pubblico, quanto è dolce, tenera, focosa e appassionata nell’intimità.

 

Per citare Natalia Makarova, una grande étoile russa, Manon è una creatura istintiva che vive per il presente, cercando di trarne il massimo possibile, pur essendo ben conscia che prima o poi verrà il giorno in cui dovrà pagare il prezzo per aver vissuto una vita così piena.

 

Il racconto si apre infatti con Manon in viaggio per il convento, ma la ragazza giovane e ancora ingenua si fa sedurre dalla vita mondana e dall’amore per Des Grieux, fino all’arresto per prostituzione e alla morte nelle braccia del suo uomo, circondata dai fantasmi del suo passato: il protagonista maschile però, colla sua trasformazione da giovane studente di buona famiglia a innamorato romantico e perduto, disposto a tutto per la sua donna è altrettanto fondamentale per il dramma.

 

La Parigi pre-rivoluzionaria, colla sua vita mondana e le sua case di malaffare, fa inoltre da perfetto sfondo a questa storia romantica d’amore e morte.

 

Questo balletto è considerato uno dei capolavori di MacMillan: gli fu consigliato di non usare la musica di Puccini, troppo nota, attingendo invece al lavoro di Jules Massenet. Cosa abbastanza curiosa, all’arrangiatore Leighton Lucas (un ex ballerino diventato tra le altre cose compositore di colonne sonore cinematografiche) fu chiesto di non utilizzare le musiche dell’opera Manon ma altri lavori meno noti del compositore francese: ciò nonostante le storie dell’opera e del balletto siano praticamente identiche.

 

Le prime recensioni al balletto non sono state completamente favorevoli, in particolar modo per quanto riguarda la psicologia dei personaggi di Manon e Des Grieux, che alcuni critici hanno forse un po’frettolosamente liquidato rispettivamente come una prostituta ed un folle. Il pubblico e i ballerini hanno invece dimostrato di apprezzare questa storia d’amore più dei critici, e ad ogni modo il valore della coreografia non è stato mai messo in dubbio, in particolare a partire dalla seconda stagione, quando i tagli effettuati all’inizio del terzo atto hanno velocizzato l’azione.

 

L’allestimento del Teatro alla Scala è stato molto apprezzato dal pubblico, che ha tributato diversi minuti di meritati applausi: belle le scenografie ed i costumi settecenteschi dai caldi colori autunnali, ottimo il corpo di ballo nelle scene corali che scandiscono i tre atti e meravigliosi i solisti, in particolare i due protagonisti: grazie al Gallo Parlante ho avuto la fortuna di assistere alla prima rappresentazione, con Svetlana Zakharova e Roberto Bolle, che come diceva Dante pare siano “cose venute da cielo in terra a miracol mostrare”.

 

MA LA  PIADINA  AI  RAGAZZI FA BENE? LEGGENDO L'ARTICOLO FORSE  SI  CAPIRA' QUALCOSA  IN  PIU'.

                       La piadina, come la pizza?

 

Guerra tra chef sulla vera ricetta della piadina

Agli onori della cronaca un altro piatto storico della cucina italiana: la piadina, sorella “dritta” della pizza. Probabilmente è il momento della pasta di pane, schiacciata cotta e farcita: la piadina passa attraverso mode e tendenze gastronomiche rimanendo sempre attuale grazie all’inventiva e alla creatività delle “piadaiole” che la farciscono nei modi più originali. Scrigno gustoso per affettati e salumi, la piadina vanta numerose e golose varianti che, oltre alla nutella, contemplano farciture innovative: pecorino al tartufo, rucola e crema di porcini, feta greca…

Motivo di orgoglio e vanto dei romagnoli, la piadina è la vera regina delle tavole emiliane. Oltre 2mila i chioschi disseminati tra la riviera adriatica e l’entroterra, determinando il successo del richiestissimo piatto, che ha varcato ormai i confini nazionali approdando anche oltreoceano con il suo gusto e le sue farciture. Un giro d’affari di circa 130 milioni di euro nella sola Riviera conferma il successo. Ma è guerra, ahimè, tra gli chef sulla vera ricetta. Il cibo nazionale dei romagnoli cambia aspetto e sapore se lo si gusta nel riminese piuttosto che a Ravenna o Cesena: più sottile e povera di grassi la prima, per poterla meglio arrotolare una volta farcita, più alta e ricca di strutto la seconda. Che sia la regina delle tavole romagnole non c’è dubbio, eppure ormai da anni si combatte un’accanita diatriba tra i cuochi riminesi e quelli che la piadina la cucinano nel cesenate.

Una guerra combattuta a colpi di ricette e ricerche storiche per rivendicare il titolo di indiscussa regina della Romagna. Ma visto che alla lunga e animata non se ne veniva a capo, senza tuttavia deporre le armi, gli schieramenti contrapposti hanno deciso di rivolgersi, ognuno per proprio conto, all’Unione Europea: nel febbraio 2005 sono state avviate due distinte procedure per l’ottenimento, presso la UE, di due diverse procedure per l’ottenimento di due Igp (Indicazione Geografica Protetta), una per la “Piadina romagnola riminese” e l’altra per “Piadina romagnola Terre di Romagna“. E intanto, in attesa che si giunga all’epilogo della vicenda, a pochi chilometri di distanza l’uno dall’altro, chef e massaie continuano a stendere la pasta convinti della supremazia della propria ricetta. Farina, acqua, un pizzico di bicarbonato, sale, strutto o un goccio di latte: ingredienti semplici che determinano il successo della piadina, divenuta ormai una vera attrazione turistica. Un’origine, quella della piadina, che rimanda la nascita del procedimento culinario a tempi antichi: sicuramente già diffusa agli inizi del millennio, nota come “pane povero”, la si fa risalire ai Romani. E’ nel corso del tempo che al piatto tipico romagnolo si sono aggiunte farciture e originali varianti, piadine cotte al momento e piadine precotte. Ad accrescere la fama della piadina è anche il prezzo “calmierato”, una tattica di mercato che ha scelto di mantenere un prezzo contenuto: una piadina farcita con salumi e/o verdure e formaggi, magari il mitico “squaqquerone”, accompagnata da una birra, un bicchiere di vino o una bibita, costa circa 6 euro. Parente stretto della piadina è il crescione: una piadina ripiegata su se stessa e farcita. Nella ricetta originaria era ripieno di verdure, erbe di campo saltate in padella con aglio e olio,oppure zucca, patate e formaggi, cotto su di un piano di materiale refrattario, attualmente rimpiazzato da moderne piastre per la cottura. Per i puristi della piadina sopravvive ancora l’antichissima tradizione della fabbricazione delle teglie in argilla per la cottura della piadina, di cui si ha notizia a partire dal secolo XVI.

(fonte: Adnkronos)

I pediatri preparano una dieta per gli esami

Corretta miscela di energia contro lo stress in classe

L’alimentazione dei ragazzi italiani in età scolare non è equilibrata. Ci sono errori nutrizionali che compromettono il rendimento scolastico e possono influire negativamente sulla concentrazione e sulla memoria. A stabilirlo è un’indagine realizzata dalla Federazione Italiana Medici Pediatri che per due anni ha studiato le abitudini alimentari di circa 2000 bambini italiani in età scolare, preadolescenti e adolescenti italiani.

Secondo lo studio presentato a Bologna durante il Congresso Nazionale della FIMP lo scorso settembre, l’ideale per gli studenti sarebbe iniziare la giornata con una colazione a base di carboidrati (pane e cereali) integrali ricchi di fibra e accompagnati da yogurt o latte e poi proseguire la giornata con alimenti ricchi di ferro e vitamina E, senza dimenticare il corretto apporto di vitamina B12, zinco, iodio e Omega-3. Secondo i dati dell’Osservatorio Nutrizionale del Grana Padano solo un bambino su cinque e poco più di 15 preadolescenti e adolescenti su cento ha l’abitudine di consumare alimenti ad elevato tenore di fibra durante la colazione, in quantità comunque sufficiente a coprire il fabbisogno di 15 gr al giorno nei bambini e di 20 negli adolescenti. Risulterebbe insufficiente anche l’assunzione del ferro tramite alimenti per tre bambini su dieci e quattro ragazzi su dieci. Lo stesso è per l’assunzione di Omega-3 nettamente inferiore rispetto alle dosi raccomandate. Insufficienti anche le percentuali di minerali assunti con la dieta, come zinco e iodio.

Sempre secondo l’Osservatorio Nutrizionale solo il 30% dei bambini tra i 7 e i 10 anni e dei ragazzi tra gli 11 e i 14 anni raggiunge l’introito giornaliero ottimale. Per lo iodio in particolare oltre il 70% dei bambini e dei ragazzi sono a rischio di carenza. In questo quadro poco consolante si salva solo l’assunzione di vitamina B12, presente negli alimenti di origine animale. Quello che ci vuole per i ragazzi è dunque una dieta equilibrata che secondo Giuseppe Mele, Presidente della FIMP dovrebbe rappresentare “la giusta miscela di energia” per alimentare il fisico e la mente “senza ingolfare il motore” e che dovrebbe contenere tutti gli elementi necessari per sostenere i ragazzi nei momenti più importanti. La FIMP, in collaborazione con Maria Letizia Petroni, Responsabile Nutrizione Clinica dell’Istituto Auxologico Italiano di Piancavallo, ha messo a punto una dieta giornaliera raccomandata per superare meglio la fatica e lo stress nel periodo degli esami. Si comincia con la colazione a base di latte o yogurt, pane integrale con marmellata, oppure biscotti. Consigliato uno spunto a metà mattina: 4-5 noci, un frutto, oppure un panino con prosciutto e scaglie di grana. A pranzo è previsto un piatto unico, ma nutriente, con pasta al ragù oppure vellutata di piselli con crostini di pane.

(fonte: Apcom)

Buenos Aires contro Napoli

Un libro argentino celebra la pizza

Jorge Francisco Luis Borges Acevedo, scrittore e poeta argentino del XX secolo definiva gli argentini degli italiani che parlano spagnolo. Così è che la pizza è considerata dagli abitanti di Buenos Aires un patrimonio locale, al punto che un libro celebra le pizzerie storiche della città e racconta la loro storia. Sono 39 i locali che compaiono nell’elenco e tra questi “Los Inmortales” e “Las Cuartetas”. “Non ci sono solo i monumenti storici di Buenos Aires, ha detto Nani Arias Incolla – dell’Ufficio Edifici Storici della città – anche le pizzerie sono una parte indissolubile del nostro mondo”. Rigidi i criteri adottati dagli autori del libro perché un locale possa essere considerato patrimonio porteno e tra questi l’antichità e il fatto che ci lavorino solo autentici maestri pizzaioli

Italiani. Un capitolo è dedicato al segno lasciato dalla pizza nella musica e nella letteratura.

(fonte: AGI)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

OTELLO di Giuseppe Verdi – Teatro degli Arcimboldi, Milano – 29/30 ottobre 2013

 

Dopo due anni il Circuito Lirico Lombardo rende omaggio a Giuseppe Verdi tornando al Teatro degli Arcimboldi con un nuovo allestimento dell’Otello, la penultima opera del Maestro di Busseto.

 

Verdi ci ha regalato l’Otello dopo un periodo di silenzio durato ben sedici anni: quelli trascorsi tra i debutti dell’Aida nel 1871 e per l’appunto dell’Otello nel 1887. Infatti, dopo il trionfo di Aida ed al culmine della sua carriera, con successi che lo avevano reso ricco e famoso in tutto il mondo, Verdi decise di ritirarsi a Sant’Agata. Ma la voglia di scrivere musica non si era certo esaurita: già nel 1879, a 66 anni, Verdi si mise alla ricerca in gran segreto di un libretto adatto ad un ritorno trionfale in scena.

 

E’noto come Verdi fosse molto esigente in fatto di libretti, così come è noto il suo amore per Shakespeare che, per sua stessa ammissione, era “un poeta di mia predilezione, che ho avuto fra le mani dalla mia prima gioventù e che leggo e rileggo continuamente”.

 

Fu quindi gran merito dell’editore Giulio Ricordi usare Shakespeare come esca per mettere insieme il compositore, ancora esitante, e il brillante poeta-musicista Arrigo Boito, autore del libretto. Nonostante degli attriti avuti in passato, Verdi ammirava infatti i molteplici talenti di Boito, che era musicista, poeta e filosofo, e inoltre sapeva di poter contare in questo caso su di un librettista che nutriva il suo stesso amore per Shakespeare.

 

Inoltre Boito non lasciò rovinare la collaborazione da malintesi ma offrì massima lealtà a Verdi, che ammirava profondamente, donandogli un libretto che taglia parti della tragedia originale a tutto vantaggio del ritmo del racconto, che fluisce rapido e lineare senza dar spazio a numeri musicali inseriti per il solo amore della tradizione e del bel canto.

 

L’azione inizia infatti a Cipro, rinunciando alla parte veneziana della tragedia, ma al contempo consentendo un’apertura veramente spettacolare: l’approdo della nave di Otello in mezzo alla tempesta.

 

Verdi, superata qualche remora iniziale, si impegnò nella composizione come poche volte aveva fatto in precedenza: Carlo Gatti, biografo di Verdi, riporta che "la partitura autografa dell'Otello, custodita negli archivi della Casa Ricordi, è la più tormentata di raschiature, di correzioni: cosa insolita, nelle altre partiture del Maestro, che recano pochissime tracce di pentimenti".

 

Questo quadra con alcune ammissioni di Verdi riguardo allo sforzo profuso per quest’opera. Forse il Maestro voleva dimostrare con orgoglio che nonostante la sua età poteva tenere testa a tutti i compositori più giovani, e che il suo talento non si era certo arrugginito per l’inattività.

 

Il risultato è un’opera dove il flusso musicale è più continuo: rispetto ai lavori precedenti di Verdi i numeri musicali non sono separati da delle chiusure nette e facilmente riconoscibili ma la musica sembra sempre in divenire, con l’orchestra che ha una funzione unificante. Alcuni dei commentatori dell’epoca avevano visto in questo l’influenza della musica di Wagner.

 

Di certo Verdi non ha deluso le aspettative della critica e del pubblico dell’epoca (il maestro teneva molto al successo commerciale dei suoi lavori), regalandoci un altro dei suoi capolavori.

 

Parlando di questo allestimento, dobbiamo apprezzare sicuramente l’idea di portare in giro per la Lombardia uno spettacolo di buon livello a prezzi più abbordabili rispetto a quelli dei teatri lirici più tradizionali e famosi. Non dimentichiamoci infatti che l’opera era ed è anche cultura popolare: ad esempio, lo stesso Verdi non apprezzò la decisione di tenere la prima rappresentazione dell’Aida in Egitto solamente davanti a dignitari, politici e critici, ma senza il “vero” pubblico. 

Complimenti all’Orchestra dei Pomeriggi Musicali di Milano, al Coro del Circuito Lirico Lombardo, ai Cori delle Voci Bianche del Teatro Sociale di Como e del Conservatorio di Como e agli interpreti, in particolare a Otello e Jago (interpretati il 30 ottobre da Francesco Anile e Alberto Gazale). Auguriamoci quindi che queste iniziative proseguano.

 

IL LAGO DEI CIGNI–Teatro alla Scala, Milano –14/18 ottobre 2013

 

E' tornato  alla Scala uno dei grandi classici del balletto: il Lago dei Cigni con la coreografia di Rudolf Nureyev, come omaggio per il ventennale dalla scomparsa del grande ballerino e coreografo.

 

Il Lago dei Cigni, dopo il fiasco del debutto del 1877, ha trovato il successo con il primo allestimento coreografato da Marius Petipa (II e IV atto, gli atti “bianchi”) e Lev Ivanov (I e III atto) andato in scena nel 1895 a San Pietroburgo, e da allora è stato considerato un punto fermo nella storia del balletto e non ha mai smesso di affascinare il grande pubblico.

 

Questo nonostante la musica di Čajkovskij sia stata tagliata, ricucita e rimaneggiata dopo la morte dell’autore e che siano stati scritti diversi finali alternativi, in particolare dopo la Rivoluzione Russa del 1917, quando l’arte doveva essere al servizio della Rivoluzione e quindi anche gli eroi del balletto dovevano diventare esempi positivi e le loro storie essere sempre a lieto fine.

 

Nell’immaginario collettivo il Lago dei Cigni è sempre stato considerato il classico dei classici, una sorta di monumento del Balletto Imperiale Russo. Della storia è stato però preso in considerazione principalmente il lato fantastico, di leggenda, o forse di favola per bambini (e prova ne sono le versioni cinematografiche degli studi Disney o di altri autori) mentre le coreografie sono state sempre apprezzate soprattutto per gli aspetti tecnici e virtuosistici.

 

Sicuramente Nureyev ha cercato di intervenire sul balletto per renderlo più interessante agli occhi dello spettatore moderno, attingendo alle sue esperienze di vita e facendo trasparire lati della sua personalità. I protagonisti maschili, il Principe Siegfried e il mago/precettore Rothbart, hanno qui un ruolo più centrale nella vicenda, anche se ciò esce almeno in parte dalla tradizione del balletto romantico e del suo culto della ballerina.

 

Ma il balletto deve essere anche una festa per gli occhi ed a volte è bello dimenticarsi di queste interpretazioni psicologiche per farsi trascinare dai pas-des-deux tra Odette/Odille ed il Principe, dagli ensemble danzati, o anche semplicemente dall’entrata delle ragazze cigno con i piedi delle ballerine che fanno risuonare il palcoscenico al ritmo della musica di Čajkovskij.

 

Infatti il corpo di ballo della Scala è sempre in grado di offrirci spettacoli di alto livello, pur senza le stelle Svetlana Zakharova e Roberto Bolle. Speriamo anzi che questi giovani abbiano preso altre occasioni per darci un saggio della loro bravura.

 

DON CARLO di Giuseppe Verdi – Teatro alla Scala, Milano – 12 / 29 ottobre 2013

 

Dopo una breve parentesi dedicata a Rossini, la Scala torna con il Don Carlo alla programmazione dedicata a Verdi nell’anno del bicentenario.

 

Si tratta di un’opera dalla gestazione a dir poco complicata: Verdi terminò la partitura a fine 1866 ma fece i primi tagli già prima del debutto dell’1877 all’Opéra di Parigi con il libretto originale in Francese.

 

Questi tagli erano dovuti a puri motivi pratici: con la durata inizialmente prevista gli spettatori parigini avrebbero perso l’ultimo treno per il rientro a casa. Sicuramente però il maestro di Busseto non era ancora completamente soddisfatto del suo lavoro: infatti tra modifiche, tagli e ripensamenti la versione italiana del Don Carlo lo avrebbe tenuto impegnato per quasi vent’anni, fino all’edizione di Modena del 1886.

 

Quest’opera è considerata uno dei capolavori di Verdi, e non è difficile capire perché. Pur adottando lo schema del Grand Opéra francese, che punta molto sulla spettacolarità (soggetti a sfondo storico, forti passioni, amori contrastati, molte comparse, cortei, balletti, cori, orchestre a pieno organico) Verdi riesce a darci dei personaggi con un vero spessore psicologico. Forse non a caso nelle versioni italiane la parte spettacolare, in particolare i balletti, sarà sacrificata per dare maggior risalto ai protagonisti e alle loro vicende.

 

Da questo punto di vista la tragedia di Schiller a cui è ispirato il libretto del Don Carlo non è certo avara di spunti. Infatti Re Filippo II di Spagna è costretto ad affrontare tre conflitti che sono i temi portanti dell’opera: quello tra genitore e figlio (Don Carlo), quello tra monarchia assoluta e stato liberale (incarnato dal Marchese di Posa) e quello tra Stato e Chiesa (rappresentata dal Grande Inquisitore).

 

Come se questo non bastasse Verdi ci parla anche dell’amore romantico di Elisabetta e Don Carlo sacrificato alla ragion di stato, dell’onestà e del sacrificio del Marchese di Posa (in nome sia dell’amicizia e sia degli ideali), della vendetta e dei rimorsi della Principessa Eboli e dell’orgoglio dei Fiamminghi, simbolo dei popoli oppressi.

 

Verdi riesce a esprimere molto efficacemente colla musica le sfumature psicologiche e l’evoluzione del carattere dei suoi personaggi. Quindi il Don Carlo è sicuramente qualcosa di più di una Grand Opéra alla francese e, anche se più frammentaria rispetto alle altre opere del maestro, è sicuramente tra le migliori per l’indagine psicologica e la potenza e l’efficacia della rappresentazione del dramma.

 

La figura di Don Carlo descritta da Schiller e Verdi non corrisponde certo alla realtà storica ma a volte vale la pena di prendersi qualche licenza per ottenere risultati come questi.

 

Parlando in particolare di questa edizione posso dire di essere stato personalmente contento di trovare finalmente, seppure in una scenografia molto scarna, un’opera non “modernizzata”. Dopo aver visto nella stessa stagione, solo per citare due esempi, Nabucodonosor vestito da impiegato del catasto e Macbeth portare la corona in una valigetta 24 ore è bello ammirare finalmente un Re di Spagna in costume da Re di Spagna.

 

Complimenti anche ai cantanti e al direttore: speriamo anzi che la Scala riesca ancora a strappare Fabio Luisi al Metropolitan Opera House di New York, permettendoci di ascoltarlo ancora presto.

 

 

La rotta è indicata e l’A.P.E.S. continua il suo viaggio

 

Il presidente Antonio Primiceri, ultimamente, diceva nei suoi discorsi: “Il risultato che volevo, l’ho ottenuto: il pizzaiolo ha ora una sua dignità professionale” e nessuno, di chi sapeva e aveva vissuto con lui quei tempi, osava contraddirlo.

L’Assemblea dei soci ha ora nominato all’unanimità Maria Teresa Bandera, già segretario generale dell’Associazione, come nuovo presidente

 

Alla fine degli anni 70, dopo gli anni dell’Austerity, nel settore della ristorazione e dell’alta gastronomia, la pizzeria e il pizzaiolo erano raffigurati come i suoi parenti poveri.

La stessa città di Napoli, da cui era partito nell’immaginario collettivo il grande marketing a favore della “pizza napoletana”, sembrava non dare spazio e valore, proprio in casa sua, a questa particolare figura professionale.

La fondazione dell’Associazione Pizzaioli Europei e Sostenitori, nel 1981, fu un vero colpo di genio ad opera di uno sparuto gruppo di ristoratori che avevano avuto l’ardire di definirsi umilmente “pizzaioli”.

Alcuni di loro erano pizzaioli emigrati all’estero (da cui la scelta di Associazione Europea).

Il Consiglio nominò Antonio Primiceri, presidente europeo e Luigi Mengozzi, presidente italiano.

Antonio, era sì figlio d’arte, suo padre era un apprezzato piazzaiolo dell’epoca, ma a questa arte aveva affiancato la sua passione di ragazzo curioso del mondo: scrivere! E divenne ben presto giornalista, conducendo e introducendo capillarmente l’Associazione verso programmi di comunicazione mirata: giornali e televisioni parlarono del fenomeno pizza.

La famosa Pattuglia Acrobatica nacque dall’idea di un altro giornalista-scrittore, suo amico, Vincenzo Buonassisi, presidente dei Probiviri dell’A.P.E.S. E si moltiplicarono i concorsi e i seminari sui tanti temi professionali che vedevano coinvolta questa categoria.

Risultato di questa “infiltrazione” capillare nel mondo? Aziende e industrie scoprirono ben presto la valenza economica della pizza e si fiondarono con entusiasmo verso nuovi tipi di produzioni alimentari, ma anche e soprattutto, verso attrezzature mirate, in modo da sostenere al meglio questa attività emergente che riscuoteva sempre più consensi entusiastici, sia presso i clienti, sia presso i consumatori. 2  

 

Quando sorsero altre associazioni sull’onda di questo primo successo, i concorsi dei pizzaioli iniziarono a moltiplicarsi e Antonio Primiceri pensò bene di uscirne.

Amava tutto ciò che era nuovo, inusitato, unico. Indirizzò quindi l’attività sociale verso un diverso modo di comunicare: in primo luogo la vera formazione professionale (che dovrebbe essere alla base di ogni mestiere), alla certificazione dell’attività, alla formazione formatori e infine allo stesso consumatore attraverso incontri mirati, non tanto alla mera degustazione di prodotto, ma alla conoscenza degli ingredienti, su una base salutistica, idonea e soprattutto consona alle moderne scelte dietetiche.

L’Assemblea Generale A.P.E.S. ha deliberato la nomina di presidente a Maria Teresa Bandera, che da sempre ha accompagnato Antonio Primiceri nel suo lavoro e con lui ha condiviso le varie scelte che hanno permesso ad entrambi di arrivare alle mete odierne di notorietà comunicativa.

Vice presidente Vittorino Coatti, e nuovo segretario generale Monica Gradilone, già Direttore dei Corsi Professionali dell’Associazione.

L’Assemblea ha altresì deliberato nuovi personaggi chiave per l’attività in programmazione:

Referente per le dinamiche professionali: Alessandra Zerbin

Referente Interculturale: Giorgio Nazir

Referente Associati A.P.E.S.: Generoso Ferrrara

Referente Ricerca e Sviluppo: Luca Mantovani

Referente per la Formazione: Enrico Pezza

Referente Iniziative Speciali: Domenico Todisco

Referente Iniziative Expo 2015: Giancarlo Pesenti

I nuovi programmi dell’Associazione:

- Certificazione delle competenze nel percorso formativo per le pizzerie

- Riconoscimento e Certificazione di Qualità per gli Istruttori e Formatori Didattici A.P.E.S.

- Le Vie della Pizza: percorso virtuale dall’Italia e nel mondo

- Pizza Pane e Pasta Fresca a San Paolo

 

 

La scala di seta di Gioachino Rossini – Teatro alla Scala, Milano – 20- 30 settembre 2013

 

In una stagione completamente dedicata a Verdi e Wagner per fortuna è stato trovato un piccolo spazio anche per una “farsa comica in un atto” di Rossini, inserita nel Progetto Accademia. 

Questa commedia degli equivoci, di trama esile e abbastanza superficiale ma dal ritmo incalzante scandito da continui colpi di scena, rappresenta una boccata d’aria per chi ama l’opera buffa nel mezzo di una programmazione dedicata giustamente al bicentenario della nascita di due grandissimi compositori che però erano sicuramente più portati per il dramma che per la commedia.

 

Nonostante sia stata composta nel 1812 da un Rossini solo ventenne si possono già ben intuire le capacità del Cigno di Pesaro, partendo dall’Ouverture (che chiude con quello che diventerà uno dei suoi marchi di fabbrica, il crescendo) e proseguendo poi con le arie (Vedrò qual sommo incanto, Amore dolcemente) ma soprattutto con gli ottimi pezzi d’insieme, tra cui segnaliamo un duetto (Io so ch’hai buon cuore), un quartetto (Sì che unito a cara sposa) e il fantastico Finale (Dorme ognuno in queste soglie) con tutte le voci in campo. 

Il debito con il teatro del ‘700 e in particolare con Mozart è evidente ma nonostante la giovane età Rossini riesce già a creare qualcosa di originale pur partendo dalla tradizione.

 

La produzione del Rossini Opera Festival attualizza il contesto, come sembra sia di moda in questo periodo,  nel caso specifico però l’opera si presta bene ad un’ambientazione contemporanea. 

La scenografia si potrebbe definire trasparente: l’appartamento della protagonista è realizzato senza pareti e inoltre a fondo scena è stato posto un enorme specchio inclinato che svela le zone nascoste.

La scelta è elegante ed efficace perché funzionale al racconto: infatti permette agli spettatori, ovunque siano, di vedere non solo i personaggi in scena ma anche quelli nascosti a spiare (e verso il finale ce ne sono parecchi) semplificando la comprensione della trama e aumentando l’effetto comico.

 

I giovani dell’Accademia della Scala, sicuramente aiutati dalla regia, sono molto efficaci nella recitazione e forse un po’ meno nel canto, però hanno sicuramente tempo e possibilità di migliorare ancora sotto questo aspetto. Il pubblico ha comunque giustamente dimostrato di apprezzare molto il loro lavoro. 

Quindi speriamo che il Teatro alla Scala continui con il Progetto Accademia che in questi anni ci ha dato spettacoli di buon livello (ricordiamo ad esempio il Don Pasquale della scorsa stagione e L’italiana in Algeri di due stagioni fa).

 

SPAMALOT – Playhouse Theatre, Londra

 

Siete in vacanza a Londra e non sapete cosa fare alla sera? Fate come i londinesi: andate a teatro, magari a godervi un buon musical. Si possono trovare abbastanza facilmente biglietti scontati anche per gli spettacoli della sera stessa da Tkts Booth in Leicester Square, nel cuore di Theatheland (se comprate qui i vostri biglietti i profitti del botteghino saranno reinvestiti a favore dell’attività teatrale) o dalle altre agenzie sparse un po’ per tutta la città.

 

Il nostro primo suggerimento, se masticate un buon inglese e avete voglia di una serata divertente, è “SPAMALOT”. Il musical prende spunto dal film “I Monty Python e il Sacro Graal”, vecchio successo del gruppo di comici britannici Monty Python, ma non si limita a ricalcarne la trama.

 

Potrete quindi seguire le gesta di Artù, re dei Britanni, nella sua ricerca dei cavalieri della Tavola Rotonda prima e del Sacro Graal poi in situazioni sempre più assurde e divertenti, tra duelli, assedi, enigmi da risolvere e altro ancora fino al lieto fine di rigore in questi casi.

 

Chi conosce il film troverà tutte le sue scene preferite, e anche qualcosa in più, ad esempio una elegante presa in giro dei musical in stile Andrew Lloyd Webber e del mondo del musical in generale e del West End londinese in particolare (basta ascoltare le canzoni “The song that goes like this”; “Star song”; “Whatever happened to my part”), chi invece non lo conosce farà forse un po’ di fatica in più a seguire la trama e le battute fulminanti ma non se ne pentirà assolutamente.

 

Il Playhouse Theatre è molto bello e tutto raccolto intorno al palcoscenico, il cast azzeccato e molto professionale, cosa che purtroppo non sempre si può dire degli allestimenti italiani dei musical.

 

Il musical ha debuttato a Broadway nel 2005 e a Londra nel 2006 e dopo una lunga tournée (e molti premi tra cui il Tony Award) è stato ripreso nel 2012 ed è ancora in programmazione oggi, come capita di frequente per i musical di successo, in questo caso sicuramente meritato.

 

Il nostro modesto suggerimento è di andarlo a vedere e sopratutto ricordatevi il motto dello spettacolo: Always look on the bright side of life – guardate sempre al lato positivo della vita!

 

 

                 Spending Review in cucina: la polenta

 

Polenta: gli ultimissimi servizi giornalistici post natalizi su web, stampa e televisioni parlano di un’ulteriore contrazione nei consumi, coinvolgendo anche l’alimentare, settore lasciato quasi indenne durante le festività, come dire risparmiamo su tutto ma non sulla tavola.

E aumentano i consumi di pasta, pane, riso, pizza anche ma fatta in casa o presa dagli scaffali dei surgelati. Un fenomeno, dunque, che presenta in modo capovolto il concetto che in questi anni si era fatto su una dieta non certo economica.

E parallelamente aumentano anche le versioni di cibi proposti già pronti in monoporzioni, a questo punto non solo per single, ma anche per persone costrette a vivere da sole causa separazioni, e via di questo passo. E fra le monoporzioni chi si rivede? La polenta. Certo la polenta sugli scaffali la troviamo anche in panetti pronti, da affettare e buttare su griglia, padella o forno. Buonissima, veloce, appagante e sostanziosa, non c’è che dire.

Infinite le regioni che si disputano il primato, prime fra queste la Lombardia e il Veneto, ma non è ultima la Puglia. Oggi abbiamo versioni di polenta bianca e gialla, polenta integrale e taragna, l’industria la propone pronta in sacchetti già farcita con funghi o formaggi.

Ma i nostri antenati per fare queste “polentine” usarono un poco tutti i cereali che trovavano, frantumando i chicchi fra due pietre e facendo cuocere sul fuoco con acqua sino a produrre delle pappette, un risultato paragonabile alle attuali farinate, in questo caso meno consistente.

La mamma della farina gialla che noi usiamo è la Zea Mays, una graminacea oriunda dell’America Centrale, conosciuta però anche in determinate zone del bacino mediterraneo. Quando i primi semi di quella Zea Mays giunsero in Italia vennero chiamati “granoturco” per indicare la loro origine straniera, quasi misteriosa … turca, appunto. Mais, dunque, una parola che deriva da mahiz, nome con il quale gli indigeni che Colombo incontrò sull’isola che battezzò Hispaniola indicavano l’elemento dal quale traevano tanta parte della loro alimentazione.

Quelle popolazioni infatti sfruttavano il mais in maniera razionale, non ne buttavano via nulla: con spighe, foglie e gambi facevano bevande alcoliche, preparavano zucchero, nutrivano il bestiame e ricoprivano i tetti delle capanne. Le pannocchie mature al punto giusto venivano abbrustolite sul fuoco o macinate fino ad ottenere una poltiglia grossolana, antenata della attuale farina da polenta.

E la storia si allunga nei secoli, ma torna attualissimo il suo uso in cucina ai giorni nostri.

Tuttavia c’è anche chi non la “frequenta” molto perché non è nella tradizione familiare: in effetti la polenta ha subito un calo pesante negli anni 70/80, era come dire passata di moda e poi ci voleva “gomito” per farla in casa.

 

 

Consigli per la cottura e la presentazione

Allora, partiamo dall’inizio: innanzitutto la polenta non va tagliata con il coltello, bensì con il filo di una cordicella, e cotta nel paiolo di rame. Oggetto nato per questo e non per altro: il classico recipiente largo e fondo, non stagnato, con manico semicircolare mobile e di ferro, da appendere alla catena che penzola dal camino, rimescolando rigorosamente con un mestolo o paletta di legno.

Una regola da tenere presente è quella di far bollire l’acqua alla perfezione, già salata, avendo cura di tenere da parte dell’acqua sempre bollente da aggiungere nel caso in cui l’impasto risultasse troppo duro. La regola delle regole è quella che impone di versare la farina “a pioggia”, in modo tale che non si formino grumi, e soprattutto che la temperatura dell’acqua non diminuisca bruscamente compromettendo seriamente la cottura

 

 

 

Il momento della verità è quando si comincia a mescolare: sottolineo che non si può più smettere fino al momento di servire in tavola, girando sempre rigorosamente dalla stessa parte, come più o meno si fa con la maionese ma anche con il risotto.

Contrariamente a quanto accade con quasi tutti i cibi, per la cottura della polenta non ci sono problemi: più cuoce più è buona e più è digeribile: nulla infatti è peggio di un pezzo di polenta semicruda, capace di compromettere la digestione anche allo stomaco più forte.

Tenete presente che più la farina è a grana grossa più il tempo aumenta: occorrerà circa un’oretta per ottenerla perfetta e profumata.

Durante la cottura, se la polenta diventa troppo spessa e dura, si aggiunge un mestolo o due di acqua bollente, ma per chi ama “pasticciarla” posso consigliare anche una cucchiaiata di olio extra vergine di oliva, oppure un bicchiere di latte caldo, o anche una noce di burro o del brodo. Un poco di fantasia non guasta e migliora sempre l’originale ricetta.

Dopo circa mezz’ora la polenta tende a staccarsi dalle pareti: è il chiaro segno che comincia ad essere cotta, ma i veri intenditori la tengono a bada ancora un’altra mezz’oretta senza mai smettere di mescolare. A quel punto il risultato è a dir poco superlativo.

 

La ricetta base

Ingredienti per 4 persone: 4 hg di farina gialla, 1 litro e mezzo circa di acqua, una cucchiaiata di sale da cucina grosso.

 

Mettere il paiolo con l’acqua e il sale a fuoco vivo: appena l’acqua alza il bollore versarvi a pioggia la farina iniziando a mescolare dolcemente con il mestolo di legno.

Cuocere la polenta sempre tenendo mescolato e il più a lungo possibile che non guasta certo il risultato, anzi come già detto lo migliora decisamente.

 

Cucchiaiate di polenta al ragù

Avanzato del buon ragù, di pesce, di carne, di verdure, comunque sia, fate una polentina tenera e a cucchiaiate come batuffoli mettetela in piatti fondi individuali o in una terrina se ne fate tanta.

Cospargete di ragù, ricoprite con formaggio grattugiato (pecorino, grana, Emmental, quello che avete di media durezza) e ponente in forno a gratinare una decina di minuti. Servire subito, magari con un Chianti giovane, che va bene con tutti gli ingredienti.

 

Polenta con le aringhe

Squamate le aringhe e pulitele eliminando la testa: mettetele in una casseruola e coprite con acqua fredda, fate prendere bollore e sgocciolatele. Lavate la casseruola, rimettetevi le aringhe, coprite nuovamente con acqua fredda e fate riprendere il bollore. Sgocciolate, mettete su di un piatto e lasciate raffreddare.

Affettate le cipolline e conditele con abbondante olio e un pizzico di sale e pepe. Fate abbrustolire in forno o su una graticola le fette di polenta, disponete su un piatto di portata, mettete su ciascuna mezza aringa e cospargete con fettine di cipolla.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Polenta con cavoli

Pulite il cavolo togliendo le foglie dure e il torsolo, lavatelo bene, tritatelo, cuocetelo in acqua bollente salata e scolatelo. Fatelo stufare in tegame con un decilitro circa di olio d’oliva e un pizzico di sale. Cuocete la polenta morbida, appena è pronta versatela in una zuppiera, mescolatevi il cavolo con molto parmigiano e lasciate raffreddare completamente. Tagliate a dadini la polenta, infarinateli leggermente e friggeteli in olio di oliva, sgocciolateli dorati e croccanti.

 

Polenta e patate

Sbucciate le patate, tagliatele a fette, mettetele nel paiolo o in una casseruola, coprite con abbondante acqua fredda salata e cuocete.

Passatele al setaccio, riversate la purea nella casseruola, aggiungete l’acqua della polenta , fate riprendere l’ebollizione e versate a pioggia la polenta, tenendo sempre ben mescolato.

La polenta deve risultare piuttosto tenera. Versate il composto così ottenute in fondine o in ciotole e condite a piacere, con qualsiasi cosa vogliate, anche solo burro e salvia fuso e molto formaggio.

 

Spiedini di polenta

Tagliate le fette di polenta, del prosciutto e del gruviera o emmental a quadratini e delle stesse dimensioni. Infilate su lunghi spiedini di ferro o di legno, alternandoli, un quadratino di polenta, uno di emmental, uno di prosciutto e così via. Ogni tanto mettete una foglia di salvia e un pezzetto di funghi champignon o altro che avete (escluso i funghi secchi). Passate gli spiedini nella farina, nelle uova battute con un pizzico di sale e pepe e poi nel pangrattato.

Friggete questi spiedini in abbondante olio e gustateli dorati e croccanti.

 

 

ANNO II- Mercoledì 9 Gennaio 2013.

Spending review in cucina e nella dispensa

  

Siamo divenuti più attenti ed oculati negli acquisti, così almeno dicono i sondaggi e le ricerche economiche di questi ultimi mesi, ma non sempre si può evitare di imbatterci in prodotti ed alimenti che, acquistati con la convinzione di consumarli, causa imprevisti (cene fuori casa, inviti e viaggi improvvisi) rischiano di venire gettati perché non consumati per tempo.

Ovviamente esistono freezer e congelatori, ma non è detto che tutto si possa conservare, e poi bisogna anche distinguere: i cibi cotti avanzati, da cibi ancora da cuocere e da elaborare in nuovi piatti e pietanze.

Avete presente il piacere di allestire tavola senza aver dovuto correre al supermercato a comperare qualche cosa perché non c’è nulla in casa?

Quando mi capita di incorrere in questa sensazione, mi sembra di aver guadagnato (risparmiato!) in modo incredibile.

Pensiamo al pane, e similari (grissini, focaccette, schiacciate): l’acquisto e il consumo in questi anni è molto diminuito, tuttavia può capitare di prendere dal fornaio qualche pezzo di pane in più perché si aspettano ospiti, per esempio. Tenete presente in ogni caso che quando in un pranzo sono previsti polenta, pasta o pizza, il consumo di pane deve essere ridotto (soprattutto un consiglio dietetico, oltre che economico). Se invece il menù prevede salse e sughi vari, salumi ed affettati, creme, zuppe, ecc.

Il pane dovrà essere abbondante e vario (alle olive, al sesamo, al latte, ai cereali…).

Se poi rimane e indurisce perché è stato dimenticato nella dispensa?

 

Partiamo dall’inizio: nell’eventualità che il pane possa avanzare, tenete presente che i tipi di pane più facilmente riutilizzabili sono il pane pugliese, il pane toscano, cioè i tipi pagnotta e filone, come la baguette francese.

 

 

Frittelline di pane al tonno

 

Ingredienti

250 gr di pane raffermo

Mezzo litro di latte

100 gr di tonno sott’olio (ma sgocciolato)

2 cucchiaiate di grana

2 prese di noce moscata

1 uovo intero

Olio per friggere

 

Per condire: 25 gr di burro e 2 cucchiai di grana

 

Tagliate a fette il pane e raccoglietelo in una terrina, scaldate il latte e versatelo sopra bollente. Rimestate con un cucchiaio di legno in modo che si amalgami. Lasciate riposare e raffreddare un paio di ore (ma anche di più, se serve a voi). Aggiungete il tonno sbriciolato e scolato dall’olio, con una forchetta amalgamate anche l’uovo intero, il grana e il pizzico di noce moscata (potete aggiungere anche della cipolla tritata finemente e del prezzemolo, per variare!).

In una padella ricoprite il fondo con dell’olio e ponete sul fuoco moderato. Quando sarà caldo (non fatelo fumare!) fate cadere dei mucchietti di impasto poco più grandi di una noce, uno accanto all’altro.

Cuocete a fiamma media rigirandoli con l’aiuto di una spatolina per non romperli. Dovranno risultare dorati da tutte le parti. Nel frattempo accendete il forno, in una pirofila fondete il burro e adagiatevi le frittellone, spolveratele di grana, innaffiatele con il burro fuso e infornate per 10-12 minuti.

Saranno un’ottima sostituzione a un piatto di pasta o di riso. Volendo a parte mettete una ciotola di un sugo a piacere, di verdure, di carne o una salsa di pomodoro e/o formaggi.

 

 

Vol-au-vent di panini

 

Ingredienti

4 panini al latte, raffermi

4 cucchiaiate di latte intero

Avanzi vari di salumi o di carne miste tritate

4 cucchiaiate di piselli al burro (ma anche in umido)

Burro

 

Scavate un pozzetto al centro di ogni panino e bagnate l’interno con un cucchiaio di latte. Riempite le cavità con i piselli mescolati alle carni o ai salumi che vi sono rimasti. Ricoprite ogni panino con una sottile fettina di burro.

Ponete i panini in una pirofila unta di burro e infornate a 220°C per 15 minuti.

 

 

 

Panini farciti in tavola

 

Ingredienti

4 panini al latte (del giorno prima)

4 cucchiai di rum o cognac

Panna montata

oppure succo d’arancia mescolato a limone e zucchero

 

Nel cestino del pane in tavola è bello vedere tipi diversi, ma un particolare tipo lo potete fare voi stessi, avrà un impatto sul dolce, ma non sgradevole, anzi curioso da tenere sino a fine pasto, quasi in sostituzione del dolce.

Tagliate i panini a metà senza dividerli completamente.

Apriteli il più possibile e con l’aiuto di un cucchiaio bagnateli con il liquore, oppure con il succo di arancia e limone e zucchero.

Mettete in frigo sino al momento di andare a tavola.

Se avete scelto di bagnarli con il liquore, prima di andare a tavola farci teli a piacere con la panna montata.

 

 

 

 

 

Frittata di pane

 

Ingredienti 

60-70 gr di pane raffermo di tutti i tipi

6 uova

Mezzo cucchiaino di sale

4-5 spruzzi di pepe

1 grossa cipolla

Olio e burro

 

Tagliate il pane a dadini e la cipolla a fettine. In una padella scaldate una cucchiaiata di olio e una noce di burro, unite pane e cipolla e rosolate, rimestando spesso per circa 10 minuti a fuoco medio.

In una terrina sbattete le uova con il sale e il pepe. Unite il pane e la cipolla , mescolate e lasciate riposare una decina di minuti.

Procedete come di consueto per la frittata.

 

 

 

 

 

                             Ricette in teglia

 

Pizza alle cipolle: affettate 4 cipolle e fatele soffriggere in un tegame con qualche con olio e latte sino a quando saranno completamente disfatte, salate e pepate. Distribuite questo composto

Nel secondo passaggio di cottura della pizza, snocciolatevi sopra delle olive nere e mettete in forno per gli ultimi 10 minuti.

 

Pizza con i funghi: rosolate in un tegame uno spicchio d’aglio con l’olio. Eliminate l’aglio e aggiungere i funghi, salate e pepate cuocendo a fuoco vivo rimescolando.

Disponete il composto sempre nell’ultima fase di cottura della vostra pizza, spolverizzate con prezzemolo tritato e 2 cucchiai di grana, condite con un filo d’olio e completate la cottura.

 

Pizza con l’indivia: ammorbidite 20 gr di uvetta sultanina in acqua tiepida, tagliate 2 cespi di belga a metà e cuoceteli a vapore, scolateli e tagliateli a pezzetti. Rosolateli in un tegame con un poco d’olio unendo l’uvetta ben scolata ed asciugata, delle olive snocciolate ed affettate e un cucchiaio di pinoli. Salate, pepate e cuocete per 10 minuti. Distribuite il composto sulla pasta in teglia, condite con olio crudo e passate in forno a 220°C per 25 minuti circa.

 

Pizza alle verdure: Tagliate a falde il peperone, a fette la melanzana e la zucchina, ungeteli leggermente di olio e scottateli su di una griglia ben calda.

Distribuite le verdure sulla pasta già condita con il pomodoro, cospargete, se gradito, con fettine di aglio e origano, salate, pepate e un filo d’olio su tutto.

Attenzione, una variante permessa è aggiungere anche la mozzarella sul pomodoro, il gusto cambia e non di poco.

Cuocere in forno a 220°C per 25-30 minuti.

 

Pizza al pesto: cospargete la pasta di sugo di pomodoro e su questo uno strato non troppo sottile di pesto genovese, che avrete leggermente allungato con 2 cucchiai di brodo vegetale, cospargete di pinoli e noci e passate in forno a 220°C per 25 minuti.

 

Pizza ai carciofi: pulite i carciofi eliminando le foglie esterne più dure, tagliateli a fettine e metteteli per qualche minuto in acqua acidulata con succo di limone. Quindi scolateli e lessateli per una decina di minuti in acqua salata, avendo cura di metterli in acqua quando questa bolle.

Scolateli. Stendete i carciofi sulla pasta in teglia, irrorateli d’olio e mettete in forno ben caldo per 20 minuti. Togliete dal forno, spolverizzate con prezzemolo e aglio e ricoprite con la mozzarella tagliata a fettine e ponete nuovamente in forno per altri 10 minuti prima di portare in tavola.

 

Pizza ripiena alle cime di rapa: cuocete le cime di rapa lentamente in una padella con l’olio e lo spicchio d’aglio, aggiustate di sale e di peperoncino.

Stendete uno strato di questa verdura saltata sulla pasta (non più di 2 cm). Ricoprite con un altro strato leggero di pasta e su questa superficie praticate dei buchi con i rebbi di una forchetta. Spennellate con un tuorlo d’uovo la superficie e date una spolveratina di pepe bianco. Mette a cuocere in forno a 200°C sino a quando non vedrete la superficie imbiondita.

 

Pizza con i porri: lavate i porri, affettateli e stufateli in una padella con una noce di burro e mezzo bicchiere di acqua; salate e tenete mescolato dolcemente. Distribuite i porri cotti sulla pasta, spolverizzate con un poco di zucchero di canna e cospargete di mozzarella a fettine sottili. Cuocete per 15/20 minuti e via in tavola.

 

 

 

 

 

Parliamo di pizza vegetariana, scelta di salute

 

Se il tema è parlare di pizza vegetariana, significa che la propria salute ci sta a cuore, che siamo attenti alla qualità e al valore dei cibi, protagonisti primari nella nostra dieta quotidiana.

Documentarsi sugli alimenti, seguire un modello alimentare, come la “dieta mediterranea”, è il sistema più appropriato nella prevenzione dell’obesità e di patologie cardiovascolari, ma anche di malattie legate al metabolismo in generale.

Altro aspetto caratteristico della dieta mediterranea è legato alle molteplici combinazioni possibili fra gli alimenti, creandosi interessanti piatti unici: il piatto unico ha poi la valenza, se fatto in casa, di essere altresì comodo e veloce, economico e gustoso. Stiamo parlando di piatti come pasta e fagioli, spezzatini con le patate, pasta con le verdure, zuppe di pesce con pasta o crostini, minestrone di cereali alla contadina, carni in umido con le verdure, ma soprattutto la pizza.

 

Per prima cosa teniamo in alta considerazione che la pasta della pizza è pasta di pane: acqua, farina, sale e lievito. Nella versione familiare è consentito l’uso di olio di oliva per rendere più morbido l’impasto che ha bisogno di un maggior tempo di cottura nei classici forni elettrici di casa. L’olio extra vergine riservatelo a crudo sulla pizza già cotta per non disperdere inutilmente aromi e profumi.

 

In commercio oggi abbiamo, soprattutto per il settore professionale della panificazione e della pizzeria, mix di farine selezionatissime, con aggiunta di soia, farro, cereali maltati, grano tenero 00 e semola rimacinata di grano duro: bisogna sapere che la sola farina 00 non è possibile sia classificata come farina per pizza, non è consentito, anche se la sua presenza è comunque superiore in percentuale alle altre.

La farina di grano tenero a seconda della macinazione che subisce viene definita “integrale”, quindi ricca di crusca (cellulosa), sali minerali e vitamine; le farine di tipo 1 e 2 sono più bianche, di grana sottile e contengono meno crusca, amidi e proteine, il tipo 0 è di grana ancora più sottile, viene usata per pane e pizza mentre la più diffusa e universale è il tipo doppio 00, finissima, priva di crusca , risultato della macinazione della sola parte interna del seme, quindi povera di sali minerali, vitamine e fibre. Oltre che per la produzione di pasta, pizza e dolci si usa anche come addensante.

Ma scegliere vegetale non vuol dire necessariamente trovarsi di fronte ad un cibo più digeribile, dipende dal tipo di verdura come pure dal suo modo di cottura, perché a cuocere direttamente sulla pizza si mette ben poco, solo il pomodorino fresco. Le verdure prepariamole prima, in genere grigliate e condite con olio e sale: peperoni, melanzane, zucchine, insalata trevigiana, cipolle a rondelle. Una certa considerazione la godono anche i funghi, distribuiti a fette a metà cottura piuttosto che preparati trifolati se non sono porcini o poveri di sapore. Ottime le pizze anche con cime di rapa passate con aglio e olio. Ma ci sono pizze vegetali più elaborate, per esempio con una farcitura di caponata, in genere piuttosto ricca di grassi, piuttosto che una trifolatura fatta con troppo aglio che rendono difficili la digestione agli stomaci delicati.

Attenzione anche al peperone che va cotto dopo aver eliminato la buccia esterna e i semi, avendo l’accortezza di scegliere le varietà meno piccanti. E’ comunque un’ottima fonte di vitamina C e betacarotene, interessante il suo basso contenuto calorico simile alla lattuga.

Sulla pizza che si vuole vegetariana si stende un leggero strato di passata di pomodoro, a seguire poca ma uniforme mozzarella fior di latte a tagliata con il coltello a dadini: questa procedura serve ad aiutare la pasta ad accogliere meglio la successiva farcitura. Si procede così con le verdure che si sono scelte in base ai gusti e alle necessità dietetiche ma se un discorso sulla pizza vegetariana si vuol considerare completo non bisogna dimenticare che esistono anche pizza alla frutta, meglio definibili come pizze dolci o dessert.

Sulla base in questo caso si distribuisce della crema chantilly piuttosto che del mascarpone lavorato con la panna, si da una prima cottura in forno e poi si distribuisce sulla superficie a raggera mele, pere, kiwi, pesche, albicocche, fragole, ananas, arance, frutti di bosco, uva, fichi, quasi fosse una crostata di frutta.

Si cosparge di zucchero vanigliato e si spruzza qualche goccia di liquore dolce e si ripassa in forno un attimo, il tempo varia a seconda che la frutta sia più o meno acquosa.

Eventuale frutta secca va sbriciolata e aggiunta alla fine.

Questa pizza è molto divertente ma anche molto calorica, ovviamente non si può mangiarne una intera, andrà servita a fette come fosse un vero e proprio dolce.

Dopo tanta premessa un poco d’istruzioni per la pizza fatta in casa.

Si può partire da una base già pronta surgelata che si trova tranquillamente in commercio nei supermercati, la si può reperire lievitata al punto giusto dal fornaio oppure farla da sé.

 

Ingredienti e preparazione dell’impasto base

1 kg di farina

1 / 2 litro d’acqua

13 gr di lievito fresco

25 gr di sale

30 gr di olio d’oliva

 

Su una spianatoia disponete la farina a fontana: al centro versatevi il sale con poco d’acqua tiepida. In una ciotola sciogliete il lievito con altra acqua. Versate al centro della farina e incominciate ad impastare il tutto aggiungendo piano l’acqua rimanente e l’olio. Dapprima la pasta si attaccherà alle dita e alla spianatoia, poi mano a mano che la lavorate sbattendola con forza diventerà meno collosa. Continuata a lavorare l’impasto con energia sino a quando si presenterà liscio ed elastico.

Raccoglietela a palla, mettetela in una terrina capiente leggermente infarinata e praticate sulla superficie un’incisione a croce per facilitare la lievitazione.

Copritela con un canovaccio inumidito e lasciate riposare in un luogo tiepido sino a quando avrà almeno raddoppiato il suo volume (ci vorranno non meno di 3 ore).

 

Utilizzo di base

Trascorso il tempo di lievitazione, infarinare la spianatoia e stendere la pasta con il mattarello, anche con le mani per chi vi riesce. Ungete la teglia, tonda o rettangolare, anche ai sui bordi.

Stendete l’impasto facendo attenzione a tenere lo stesso rialzato sempre ai bordi per facilitare la tenuta degli ingredienti. Distribuitevi il sugo di pomodoro e lasciar riposare al caldo ancora per una ventina di minuti. Bucherellare con una forchetta la superficie.

Infornare per una ventina di minuti a una temperatura intorno ai 200-220 °C. Sfornare e aggiungere gli ingredienti previsti dalla ricetta, una decina di minuti ancora in forno e poi in tavola.

Per  questa  settimana  vorremmo  riportare  unicamente di una  manifestazione  culturale nell'ambito  della  nostra  rubrica  cucina,  che  è  la  visita  in  questo  caso  guidata  , da  chi  ha  realmente  abitato, vissuto  per  un'intera  vita  lavorativa  a favore  soprattutto  di  tante persone,  aziende ,facendo  la  storia  in parte  della  Milano  salotto  buono  della  finanza degli  anni 70/ 80,  la  vecchia  e  gloriosa  BANCA  COMMERCIALE  ITALIANA.

Infatti  la  vecchia  sede  storica  di  via  manzoni, è  stata  trasformata in  museo, in q uanto  in  tanti  anni  di  vita, la  gloriosa  banca  aveva  accumulato  un  vero capolavoro di  dipinti  e  scuture d'arte  nell'arco  degli  anni, ed  ora  si è  trasformata in  un museo.Accludiamo  quindi l'evento  che  si terra la  prossima  settimana il 22 Novembre, dove  sarà  anche possibile  degustare  un  branch  in  un locale  tipico  di  MILANO. BUON  BRANCH  E BUONA  VISITA. 

 

 

Ai nostri lettori
Siamo arrivati all'ultima "pizzata del 2012: l'occasione è ghiotta in quanto si presenta l'opportunità di visitare la mostra "Cantiere del '900" presso le "Gallerie d'Italia - Piazza Scala" presso la ex sede (poi Agenzia) della Banca Commerciale Italiana in Piazza Scala e di scambiarci gli auguri per le imminenti festività di fine anno.
Sarà quindi possibile visitare gli spazi della sede storica della Banca Commerciale in Piazza della Scala rivisitati da Michele De Lucchi e dedicati ai dipinti che facevano parte della "collezione Comit". Come gli organizzatori osservano, la buona riuscita della giornata presuppone la conoscenza del numero dei partecipanti: raccomandiamo ancora di utilizzare il modulo sottostante per segnalare la propria presenza, indicando se siete interessati ad una soltanto oppure (come ci auguriamo) ad entrambe.
Vi chiediamo di estendere il presente invito ai colleghi presenti nelle vostre mailing list.
Per quanto ovvio, gli amici Comit residenti fuori Milano sono, come sempre, i benvenuti!!!!
Contando di esservi d'aiuto, abbiamo predisposto la sottostante mappa.
A presto!
Piazza Scala - novembre 2012

 

Cari amici, la maggior parte di voi avrà saputo che, alcune settimane fa, le Gallerie d’Italia, il museo aperto in Piazza Scala nella sede della Banca, hanno ampliato il percorso espositivo, includendo i saloni di quella che fu la Sede di Milano prima e l’Agenzia di Piazza della Scala in tempi più recenti. Ovviamente le opere esposte sono quelle che appartenevano alla Comit, acquisite a partire dal dopoguerra dall’appassionata competenza di Vittorio Corna, cui fece seguito, con altrettanta capacità e intuizione, Giorgio Ferretti.
Si tratta di un excursus unico per ricchezza e varietà, che abbraccia tutte le tendenze sviluppatesi in Italia dell’arte figurativa, dallo spazialismo all’arte povera, dall’informale al concettualismo e così via, nel quale sono rappresentati artisti fra i più significativi del tempo che maggiormente appartiene alla nostra generazione.Anche per andare incontro alle numerosissime richieste, abbiamo pensato di organizzare una visita per il prossimo

22 Novembre
con appuntamento in Piazza Scala alle 10,30

Scriviamo questo avviso con alcuni giorni di anticipo, pur consci che il quotidiano affievolirsi della nostra memoria può giocare brutti scherzi, ma abbiamo necessità di conoscere per tempo il numero dei partecipanti per organizzare al meglio la visita.
Aspettiamo pertanto le vostre tempestive adesioni per formare una lista di partecipanti.Alla visita seguirà il consueto spuntino alle 12,45 presso il Ristorante

"Carlsberg Ol" - Pizza Birra e Cucina,
Bastioni di Porta Nuova, 9
Tel: 02.6555560

dove in passato ci siamo trovati sempre bene e dove potremo consumare al prezzo di 15 € gli antipasti (taglieri di salumi e gnocco fritto), un bis di primi, vino, caffè, sorbetto. Oppure, per chi vuole, Pizza.
Chi avrà partecipato alla visita alla mostra potrà raggiungerlo a piedi, con una gradevole passeggiata. Gli altri si faranno trovare, come al solito, all’ingresso del ristorante.
Vi preghiamo di specificare, nella vostra risposta, se la vostra partecipazione riguarda visita e pranzo, o una sola delle due opportunità d’incontro.

Pizzi, Marini, Vasta (fonte pagina  fb)

                  PASTA  ALLA MATRICIANA

 

Questa settimana intercaliamo  la  nostra  rubrica   parlando  unicamente  di  una  ricetta  classica.  la  pasta  alla  matriciana, tipica  dei colli romani,  anche  se  le  origini  non  sono proprio  di  Roma  capitale.

 

Prendete 200 grammi spaghetti di pasta secca di semola di grano duro di produzione italiana e di alta qualità. Consigliata la pasta De Cecco  o  della  Brilla  possibilmente  la n.12.

- 125 grammi  di Amatrice,  non usare possibilmente la pancetta  classica, che  potrebbe  dare  un gusto  diverso alla pasta.

- 250 grammi di pomodoro fresco maturo o in alternativa una  scatola di pelati. 

- 75 grammi di pecorino  non salato e leggermente piccantino ,possibilmente  quello  sardo.  

- 1/2  cucchiaio di strutto, o in  alternativa olio  extra  vergine ,  ma  ne  altererà però  un po  il  sapore, e  servirà  anche  per bagnare  la  pentola.

- 1/2 peperoncino rosso di  medio piccante.

- 1/2  pugno di sale grosso per la pasta.

 

Rosolare il tutto  e  poi  spargerlo  sulla  pasta possibilmente al  dente, da  servire non  troppo bollente  e accompagnare con  del vino  rosso, possibilmente  un  leggero frascati, a  temperatura  ambiente.

Buon  appetito.

 

RIPRENDIAMO  GLI  ARTICOLI  DELLA  RUBRICA  CUCINA, IN  CUI  ENTRERETE IN  UN  MONDO  NUOVO DELL'ASPETTO CULINARIO DELLA NOSTRA BELLA  ITALIA.

Cucina come relax, come ospitalità e buona compagnia, per socializzare, come gioco o cultura, come la si voglia identificare la cucina e il cibo è anche salute e qualità di vita.

Molto si parla di tradizione e naturalità ma la vita moderna ci ha tolto la conoscenza dei sapori “di una volta” ed è un risultato che difficilmente si potrà invertire.

Siamo sicuri di conoscere il valore e il profumo di olio d’oliva extravergine da un olio d’oliva.

Distinguiamo la carne di tacchino dal pollo? Quella di maiale dal vitello? Le primizie vegetali valgono il loro costo? Ma i funghi porcini hanno ancora quei ineguagliabili profumi o si sono appiattiti e nemmeno più sono italiani? La globalizzazione, la coltivazione forzata, i cambiamenti climatici hanno portato a mutazioni anche nei prodotti agroalimentari e non sappiamo più ricondurci ai cosiddetti “sapori della nonna”. Questo accade al consumatore ma inevitabilmente anche al professionista dei fornelli che cercando di valorizzare un pezzo di carne piuttosto che un piatto regionale si inventa tanti piccoli accorgimenti che fanno la differenza e “animano” un cibo diciamo un poco sciapo. In effetti, non esiste per questo solo l’aggiunta di sale, si può ricorrere a tante particolari nuove conoscenze che capovolgono alcune volte abitudini radicate.

Lo sapevate, per esempio, che la pasta al dente è molto più digeribile della pasta troppa cotta? Che la carne di maiale è migliore se poco cotta? Una volta, anzi, raccomandavano caldamente di cuocerla molto per via di possibili infezioni intestinali oggi tenute sotto controllo dalla vigilanza sanitaria e da un tipo di alimentazione e di allevamento più igienico.

Con questo obiettivo, conoscere i segreti di cucina e in cucina dei nostri amici chef, andremo ad incontrare professionisti della tavola e dell’ospitalità che ci educheranno su come gestire un piatto, trattare un prodotto, riconoscere la qualità, al di là della semplice elencazione di ricette.

 

Incontriamo per primo Luca Copelli, il bottegaio del Pupurry a Milano in Via Bertini 25, specializzato in carne alla brace, cucina tosco-emiliana. Grande amore ed estrosità di spirito sono le principali caratteristiche di Luca, ama essere fuori dagli schemi, ama la natura e nel giardino del ristorante si è circondato di alberi di ulivo, di limoni e pesche. Siamo a Milano ma sembra essere in un cascinale fuori porta, come si usa dire a Roma.

Esperienze diverse, ma una grande passione l’hanno alla fine portato al Pupurry, storico locale milanese di proprietà di Antonio Primiceri, che gli ha affidato la gestione ma che passo passo lo segue apprezzando il rinnovando che Luca ha dato al locale. Dalle tagliatelle al cacao o il risotto alle rose, oggi troviamo una carne specialissima, gustosa, succosa, profumata: a Luca vogliamo rubare qualche segreto e qualche idea.

 

 

 

Luca, il tuo locale è specializzato in carne alla brace. Carne, dunque: quali sono i pezzi maggiormente richiesti?

Utilizziamo principalmente la lombata 8 C (costate, fiorentine), però anche tagli come “codone”, scamone, punta di petto, girello, spinacino, puntine vengono apprezzati. Per non dimenticare piatti fatti con il “quinto quarto” meglio conosciuto come frattaglie.

 

 

 

Ordini e ricevi la carne: che trattamento le riservi nella cella frigorifera (frigorifero per i privati)?

Per quanto riguarda la lombata 8 c il trattamento è una frollatura di 25 giorni circa, contando la settimana che il nostro fornitore dà già al prodotto.

 

 

 

 

Nel caso della fiorentina, della tagliata, della costata, prima di metterla al fuoco, cosa suggerisci o come procedi?

Se viene utilizzata la griglia con la brace consiglio di condire con del sale in degli aromi a gusto e olio extra vergine di oliva prima di porla sulla griglia. Se invece viene usata una piastra o una griglia in ghisa ungete bene la carne e basta.

 

Carne alla brace, quali verdure possono accompagnarla o cosa proporre di diverso per farne un pranzo diverso?

Indivia, radicchio, pomodori, zucchine, peperoni, finocchi sono sicuramente le migliori: cucinatele in modo classico sulla griglia senza umori, né sale, ne olio. Lasciarle riposare e condire del buon olio extra vergine di oliva, basilico e origano fresco, sale e pepe.

 

 

 

 

BENVENUTI  NELLA NOSTRA  RUBRICA DI  CUCINA. IN  QUESTA  RUBRICA  TROVERETE  OLTRE  ALLE  RICETTE NOTIZIE CHE  NON  VI  RIVELIAMO  AL MOMENTO,  MA  CHE  SPERO APPREZZERETE. LA  RUBRICA  E'  STATA INFATTI  IDEATA ANCHE  PER OFFRIRVI  QUESTE NOVITA'.

INIZIAMO  QUINDI  LA  RUBRICA  CON  UNA  RICETTA  SEMPLICE  CHE,  TROVERE IN  QUESTO  VIDEO. ABBIAMO VOLUTO  INFATTI PRESENTARVI CON  QUESTO VIDEO, ANCHE  UNA PARTE  DELLA  NOSTRA  MERAVIGLIOSA SARDEGNA, SOTTO  UN PROFILO  CHE  FORSE NON TUTTI  CONOSCONO.

BUONA  VISIONE